12 Maggio 2024

Pasolini

GLI ITALIANI NON SONO PIU’ QUELLI

Il 2 giugno: sull’«Unità» in prima pagina c’è il titolo delle grandi occasioni e suona: «Viva la repubblica antifascista.»
Certo, viva la repubblica antifascista. Ma che senso reale ha questa frase? Cerchiamo di analizzarlo.
Essa in concreto nasce da due fatti, che la giustificano del resto pienamente: 1) La vittoria schiacciante del «no» il 12 maggio, 2) la strage fascista di Brescia del 28 dello stesso mese.
La vittoria del «no» è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano, ma, in certo senso, anche di Berlinguer e del partito comunista. Perché? Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro paese in questi ultimi dieci anni: il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più «progredito» di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e paleoindustriale.
Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che anche Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum; non volevano la «guerra di religione» ed erano estremamente timorosi sull’esito positivo delle votazioni. Anzi, su questo punto erano decisamente pessimisti. La «guerra di religione» è risultata invece poi un’astrusa, arcaica, superstiziosa previsione senza alcun fondamento.
Gli italiani si sono mostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare. Sia il Vaticano che il Partito comunista hanno sbagliato la loro analisi sulla situazione «reale» dell’Italia.
Sia il Vaticano che il partito comunista hanno dimostrato di aver osservato male gli italiani e di non aver creduto alla loro possibilità di evolversi anche molto rapidamente, al di là di ogni calcolo possibile.
Ora il Vaticano piange sul proprio errore. Il PCI invece, finge di non averlo commesso ed esulta per l’insperato trionfo.
Ma è stato proprio un vero trionfo?
Io ho delle buone ragioni per dubitarne. Ormai è passato quasi un mese da quel felice 12 maggio e posso perciò permettermi di esercitare la mia critica senza temere di fare del disfattismo inopportuno.

La mia opinione è che il cinquantanove per cento dei «no», non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo, del progresso e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose:

1) che i «ceti medi» sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali ma sono i valori (ancora vissuti solo esistenzialmente e non «nominati») dell’ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. E’ stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l’imposizione della smania del consumo, la moda, l’informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo.

2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione, del tipo che ho accennato qui sopra (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante ecc.).

Il «no» è stato una vittoria, indubbiamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una «mutazione» della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista.

Se così stanno le cose, allora, che senso ha la «strage di Brescia» (come già quella di Milano)? Si tratta di una strage fascista, che implica dunque una indignazione antifascista? Se son le parole che contano, allora bisogna rispondere positivamente. Se sono i fatti allora la risposta non può essere che negativa; o per lo meno tale da rinnovare i vecchi termini del problema.
L’Italia non è mai stata capace di esprimere una grande Destra. E’ questo, probabilmente, il fatto determinante di tutta la sua storia recente. Ma non si tratta di una causa, bensì di un effetto. L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. Essa ha potuto esprimere solo quella rozza, ridicola, feroce destra che è il fascismo. In tal senso il neo-fascismo parlamentare è la fedele continuazione del fascismo tradizionale. Senonché, nel frattempo, ogni forma di continuità storica si è spezzata. Lo «sviluppo», pragmaticamente voluto dal Potere, si è istituito storicamente in una specie di epoché, che ha radicalmente «trasformato», in pochi anni, il mondo italiano.
Tale salto «qualitativo» riguarda dunque sia i fascisti che gli antifascisti: si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa, in realtà, è enorme: è un fenomeno, insisto, di «mutazione» antropologica. Soprattutto forse perché ciò ha mutato i caratteri necessari del Potere. La «cultura di massa», per esempio, non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbìe affini.
L’omologazione «culturale» che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa. Non c’è più dunque differenza apprezzabile – al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando – tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili. Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un comizio o di un’azione politica – un fascista da un antifascista (di mezza età o giovane: i vecchi, in tal senso possono ancora esser distinti tra loro). Questo per quel che riguarda i fascisti e gli antifascisti medi. Per quel che riguarda gli estremisti, l’omologazione è ancor più radicale.
A compiere l’orrenda strage di Brescia sono stati dei fascisti. Ma approfondiamo questo loro fascismo. E’ un fascismo che si fonda su Dio? Sulla Patria? Sulla Famiglia? Sul perbenismo tradizionale, sulla moralità intollerante, sull’ordine militaresco portato nella vita civile? O, se tale fascismo si autodefinisce ancora, pervicacemente, come fondato su tutte queste cose, si tratta di un’autodefinizione sincera? Il criminale Esposti – per fare un esempio – nel caso che in Italia fosse stato restaurato, a suon di bombe, il fascismo, sarebbe stato disposto ad accettare l’Italia della sua falsa e retorica nostalgia? L’Italia non consumistica, economa e eroica (come lui la credeva)? L’Italia scomoda e rustica? L’Italia senza televisione e senza benessere? L’Italia senza motociclette e giubbotti di cuoio? L’Italia con le donne chiuse in casa e semi-velate? No: è evidente che anche il più fanatico dei fascisti considererebbe anacronistico rinunciare a tutte queste conquiste dello «sviluppo». Conquiste che vanificano, attraverso nient’altro che la loro letterale presenza –divenuta totale e totalizzante – ogni misticismo e ogni moralismo del fascismo tradizionale.
Dunque il fascismo non è più il fascismo tradizionale. Che cos’è, allora?
I giovani dei campi fascisti, i giovani delle SAM, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati «fascisti»: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – ripeto – non c’è niente che li distingua. Li distingue solo una «decisione» astratta e aprioristica che, per essere conosciuta, deve essere detta. Si può parlare casualmente per ore con un giovane fascista dinamitardo e non accorgersi che è un fascista. Mentre solo fino a dieci anni fa bastava non dico una parola, ma uno sguardo, per distinguerlo e riconoscerlo.
Il contesto culturale da cui questi fascisti vengono fuori è enormemente diverso da quello tradizionale. Questi dieci anni di storia italiana che hanno portato gli italiani a votare «no» al referendum, hanno prodotto – attraverso lo stesso meccanismo profondo – questi nuovi fascisti la cui cultura è identica a quella di coloro che hanno votato «no» al referendum.

Essi sono del resto poche centinaia o migliaia: e, se il governo e la polizia l’avessero voluto, essi sarebbero scomparsi totalmente dalla scena già dal 1969.
Il fascismo delle stragi è dunque un fascismo nominale, senza un’ideologia propria (perché vanificata dalla qualità di vita reale vissuta da quei fascisti), e, inoltre, artificiale: esso è cioè voluto da quel Potere, che dopo aver liquidato, sempre pragmaticamente, il fascismo tradizionale e la Chiesa (il clerico-fascismo che era effettivamente una realtà culturale italiana) ha poi deciso di mantenere in vita delle forze da opporre – secondo una strategia mafiosa e da Commissariato di Pubblica Sicurezza – all’eversione comunista. I veri responsabili delle stragi di Milano e di Brescia non sono i giovani mostri che hanno messo le bombe, né i loro sinistri mandanti e finanziatori. Quindi è inutile e retorico fingere di attribuire qualche reale responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo (che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi).
Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe il fascismo di Spinola, non quello di Caetano: cioè sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione.

P.P.Pasolini, Corriere della sera

10 giugno 1974

11 Maggio 2024

Keynesiani

Il noto economista neokeynesiano Paul Krugman (PK), premio nobel, ha scritto questo articolo per il NYT. Prontamente, La Stampa lo ha tradotto e pubblicato. La mia stima di PK è bassa, perché mi è capitato di seguirne i divincolamenti nel tempo. Intendo dire che non fa mai una previsione giusta, e a volte dà consigli ai governanti, consigli per i quali a distanza di tempo prova imbarazzo. Per esempio, nel 2008, felice dell’ascesa alla Casa Bianca di Obama, scrisse un lungo articolo nel quale dettava al giovane presidente le linee-guida per un prospero mandato. Lo pubblicò su Rolling Stone, pensa che figata. Peccato che l’articolo non ci sia più: se andate a guardare le annate di Rolling Stone, l’articolo è stato tolto. Neanche fossero gli archivi dell’Inquisizione Romana.

D’altra parte, si può dire che si trattava di un’iniziativa autonoma di PK. Invece, fu proprio un incarico governativo quello che ricevette dal Giappone in stagnazione negli anni ’90. PK propose ricette pseudokeynesiane tipo “helicopter money”, dopodiché fu licenziato per manifesti insuccessi.

Ma veniamo all’articolo qui sopra. Tralasciamo l’analisi delle cause del malessere economico americano, che sarebbero una sola: il Covid. Anzi, non c’è neppure malessere, secondo PK, perché tutti sono contenti, e ne fa fede un sondaggio. Non solo il sondaggio: i dati sui consumi proverebbero che gli americani stanno meglio di quattro anni fa. E qui vorrei dire una cosa. Secondo Keynes, e a maggior ragione secondo i keynesiani, la propensione al consumo aumenta man mano che i redditi si abbassano. In sostanza, come spiegato qui, i poveri consumano una quota alta dei loro redditi, e i ricchi no. Se il reddito reale decresce, non decrescono i consumi, ma il risparmio. Se poi consideriamo un’economia dove i prezzi sono aumentati, e così la povertà, troveremo che i consumi espressi in moneta corrente sono più alti che prima dell’inflazione, essendo cresciuti almeno in ragione del tasso di inflazione. Un keynesiano dovrebbe considerarla un’ovvietà; non so un neokeynesiano.

3 Maggio 2024

La Busiarda: un nome, una missione

27 aprile 2024

Captain Allen

Un utente di X (Twitter) con questo pseudonimo pubblica interessanti spiegazioni sulla proporzionalità delle risposte militari.
Si trovano in Pages (sotto la testata del blog), sotto i titoli “Proportionality” e “Follow-up on proportionality“. Successivamente, ho aggiunto anche “Why are there Palestinian refugees?

23 aprile 2024

Ragazzi di allora, ragazzi d’oggi

20 aprile 2024

L’eredità di Anala e Armando

In aderenza alla Basilica di S.Simpliciano e al suo chiostro, a Milano,  c’è una piazzetta, denominata Paolo Sesto. Questa mattina, verso le 9:30, era piena di gente. La gente era in coda: una coda che prendeva i quattro lati della piazza, per grosso modo 120 metri, e composta di persone dall’aspetto benestante generalmente in coppia (quindi la coda va intesa come doppia). E’ anche verosimile che la coda si prolungasse all’interno del chiostro. Considerata la probabile apertura alle 10, e dato il numero di persone, suppongo che l’attesa sia stata di ore.

Che cosa attendevano di vedere, in maniera disciplinata ma certo bramosa, quelle centinaia di persone? Una facile ricerca su web mi ha dato la risposta. Nell’ambito del cosiddetto Fuorisalone del Design, volevano vedere un servizio di piatti. Lascio la descrizione ai mercanti: “Un’inedita collezione di piatti in porcellana disegnati da Gio Ponti per la celebre villa venezuelana di Anala e Armando Planchart, portati alla luce da Saint Laurent Rive Droite”  Si può visionare, ma anche comprare, perché la Richard Ginori ha benevolmente ristampato 12 piatti originali della collezione secondo la tradizione. In altre parole: questa coda degna della Gioconda è per accedere a una sala dove 12 piatti, prodotti adesso, sono esposti. Per comprarli, invece, bisogna spostarsi di qualche chilometro, al negozio Yves Saint Laurent di Via Montenapoleone. Ignoro il prezzo, ma penso che i potenziali acquirenti resterebbero profondamente delusi se non fosse da brivido.

Girando per il centro di Milano in questi giorni si vedono decine e decine di code come quella che ho descritto. Il Fuorisalone è una grande occasione di reddito per la città, e quindi nessuno si permette di eccepire. E’ anche un’occasione per osservazioni sociologiche.

16 aprile 2024

Milano, Junior, Adolfo

Dunque: Stellantis voleva chiamare “Milano” un nuovo modello Alfa Romeo. Prodotto in Polonia. Il Ministro Urso si è impuntato, e allora Stellantis ha cambiato il nome. I sindacati non sono contenti, dicono che la cosa importante è che l’auto non sia prodotta in Italia. Ma vedete che si sbagliano, come ci dimostra l’imparziale La Stampa:

Io non sono di quelli che siccome uno si chiama Adolfo è necessariamente cattivo. Magari c’era un nonno con quel nome. Comunque, nessuno ha mai pensato che un fascista sia necessariamente scemo. Nel caso di Urso, parrebbe che le congiunzioni astrali si siano verificate.

9 aprile 2024

Seniorinnen

Quando eravamo ragazzi, e si aveva a che fare con una donna più grande, usavamo dire: “le vecchie bisognerebbe ammazzarle da piccole”. Il duro corso dell’età mi ha fatto abbandonare questo modo di dire, ma non è detto che avessimo torto allora.
Lasciando perdere il genere, e guardando solo all’age gap, bisogna dire che la categoria dei vecchi tende a essere meno contagiata dalle opinioni trendy, fra le quali furoreggia il tema del cambiamento climatico. È quello che dice anche l’analfabetoide il cui post riporto qui sopra. Alla fine, lui si complimenta con le vecchiette perché hanno aderito anche loro alla lotta per il salvataggio del caro Pianeta, sostenendo anzi che lo Stato Svizzero le priva di un futuro vivibile.
Quanto futuro resti a quei teneri virgulti io lo ignoro. Prendo però atto che si è sanata un’anomalia: è infatti anomalo che i rincoglioniti siano i giovani e i vispi siano gli anziani. Grazie, seniorinnen, per avere messo a posto le cose.

4 aprile 2024

“Europeismo”

  1. Il movimento comunista sorse come forza politica in primo luogo internazionalista. Era nato in opposizione ai partiti socialisti «socialpatrioti» finiti nel disastro delle «idee» (e delle trincee) «del 1914»; e si manifestò, nella prima sortita pubblica del governo sovietico (7 novembre 1917), come proclama ai popoli e ai governi di tutti i paesi belligeranti (il cosiddetto «Decreto sulla pace» lanciato ben prima dei «14 punti» di Wilson). L’internazionalismo era il suo carattere genetico principale, nonché il tratto distintivo più forte rispetto alle altre coeve «rivoluzioni» (Messico di Villa, Turchia di Atatürk, Cina di Sun Yat-sen). Perciò la torsione in senso «nazionale» (il «socialismo in un paese solo» e, sul piano teorico, i Quaderni di Gramsci e la coeva Storia del bolscevismo di Arthur Rosenberg) fu la più profonda (e durevole) mutazione del Dna del movimento comunista. Mutazione rivelatasi feconda e divenuta azione politica con la «grande guerra patriottica» della Russia (ancora oggi mito fondativo) e con l’impegno totale e totalizzante dei partiti comunisti nella Resistenza europea (ma anche nella «lunga marcia» di Mao in Cina o nella resistenza anti-giapponese nell’Indocina). Il «partito nuovo» – come s’è detto nelle pagine precedenti – si propose, in Italia, innanzi tutto come forza «nazionale». Poi, con la crisi epocale del 1956, unica certezza strategica diventò la «via nazionale al socialismo». Via nazionale e gradualismo (andare «verso» una società socialista tenendosi saldamente sul terreno della democrazia politica) erano scelte indissolubili, e furono di fatto le due facce della stessa scelta, che si affermò come assolutamente definitiva: come prospettiva strategica e come categoria mentale. Era il ritorno pieno alla socialdemocrazia come strada maestra dopo la lunga (e storicamente necessaria) parentesi «comunista». I costi umani della «parentesi» furono altissimi: non meno di quelli della «Grande Terreur» o della rivoluzione messicana.
  2. Perciò è vuota e autoingannevole ideologia l’«europeismo» assunto come articolo di «fede» dall’attuale Pd: unica sua «fede», i cui contenuti concreti non vengono mai definiti se non con genericità («Erasmus» per i «giovani»). Un tale «europeismo» – la cui faccia vergognosa è il Trattato di Dublino – vorrebbe essere la nuova forma dell’internazionalismo, quasi un intellettualistico ritorno ‘alle origini’… Ma nella realtà effettuale è piuttosto l’internazionalismo dei benestanti. Il suo epicentro è finanziario, con effetti, se del caso, vessatori. Oggi è messo in crisi dalla bufera sanitaria, che ha fatto crollare per un tempo non definito il sacro dogma dei «parametri» e ha innescato un processo debitorio (in prospettiva allarmante per gli Stati più deboli), di cui non si riesce a vedere come e quando potrà essere sanato. Uno dei risultati di tale imprevista bufera può essere, nel tempo medio-lungo, la destrutturazione dello «Stato sociale»: cioè della gloriosa conquista del gradualismo socialdemocratico, attuata nel corso del secolo XX essenzialmente sul piano e nell’ambito nazionali.

(Luciano Canfora, La Metamorfosi, Laterza)

26 marzo 2024

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