Le attempate oche giulive che popolano, a volte con un fallico microfono in mano, il foyer della Scala sono sempre, e per definizione, entusiaste della regia. Ieri trovavano che il sig. Claus Guth avesse riempito il Lohengrin di citazioni viscontiane, solo perché aveva vestito i cantanti in foggia ottocentesca. Io credo invece che il modello fosse Terminator. Mi spiego con una sinossi del primo atto. Oltre non vidi (ma continuavo a udire) in quanto impegnato a preparare i ravioli.
In una imprecisata landa centroeuropea, nel secolo XIX, una vergine grassottella è accusata di chissà quale nefandezza da un capitalista in marsina e cilindro. Per evitare le lungaggini della magistratura, il re decide che la fondatezza delle accuse sarà provata dall’esito del duello fra l’accusatore e un indefinito paladino della vergine. Il paladino appare, esattamente come Terminator all’inizio dell’omonimo film: privo di vestiti decenti, a piedi nudi e in posizione fetale. Terminator deve avere qualche circuito danneggiato (come alla fine del film) perché è percorso da tremiti. Tuttavia, prevale facilmente sull’umano accusatore. La vergine gli si offre subito, aggiungendo ricca dote. Terminator accetta l’offerta, ma è ovviamente restio a declinare le generalità.
Qui finisce il primo atto, e altro non so, salvo che nel terzo il povero Terminator , sempre privo di scarpe, è costretto a sguazzare in vera acqua, in un acquitrino. Segue commento.
L’ambientazione nell’Ottocento delle opere dell’Ottocento è risorsa teatrale che risale agli anni ’70 del secolo scorso. L’inventore è Patrice Chéreau, autore della bella regia nel Ring del centenario, a Bayreuth. Da allora, è un luogo comune per i registi wagneriani. Questo per dire che l’abusata scusa “mi hanno fischiato perché è un pubblico codino che odia il nuovo: i posteri mi apprezzeranno” dopo quarant’anni è davvero poco convincente.
Si deve aggiungere che la svolta delle regie operistiche degli anni ’70 e successivi, e in particolare l’ambientazione in un’epoca contemporanea alla scrittura dell’opera, rispondeva a prese di posizione politiche (arte come sovrastruttura) che generavano forte, sia pur confusa, voglia di “demistificare”: la via più semplice era di rendere evidente che l’ambientazione medievale copriva temi e conflitti attuali, donde l’ambientazione ottocentesca. Per quanto discutibile, quell’impostazione aveva una sua logica. Ora, se il sig. Guth pretende di fare la stessa cosa con intenti diversi, ciò si traduce in un arbitrario (e perentorio) invito a vedere il Lohengrin con la sua prospettiva, ossia quella del sig.Guth. Ma perché noi dovremmo seguirlo? Meglio fischiarlo, come hanno fatto i loggionisti.
La verità è che Wagner non è rappresentabile in modo filologico, in quanto il rispetto delle sue maniacali indicazioni sceniche porterebbe oggi a esiti imbarazzanti. Lo stesso Wagner non fu mai soddisfatto delle rappresentazioni delle sue opere, anche quando ci metteva mano lui stesso. La necessaria conseguenza è, a mio parere, una sola: le opere di Wagner vanno eseguite in forma di concerto.
Resta da dire che Barenboim ha ben diretto un’opera indubbiamente più facile dei successivi spartiti wagneriani. Veramente ottima, a mio amatoriale parere, la compagnia di canto.
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