Archive for giugno, 2022

25 giugno 2022

Prova invano a immedesimarsi

Da qualche settimana, Adriano Sofri sostiene di essere inviato speciale a Odessa. Poiché non sarebbe la prima inesattezza da lui pronunciata, prendiamo l’affermazione con beneficio di inventario. Ma diamo l’improbabile per accertato: Sofri è a Odessa. Che ci fa? Narra la guerra, da una postazione non precisamente centrale al teatro delle operazioni, ma insomma.

D’altra parte, lui non è un inviato di guerra nel senso tradizionale. Diciamo che è uno che usma, più che l’odore della polvere da sparo, l’impalpabile sentore intellettuale dell’Ucraina in guerra. Domanda preventiva: Sofri conosce il russo? conosce l’ucraino? pare di no. Però usma.

Ed eccoci a noi: Sofri ha inteso che c’è gente russofona in quella regione dov’è Odessa. E che questa gente è la maggioranza. Gli sfugge qualche antefatto, ossia quello che è successo fra il 2014 e il 2022, ma nessuno, neppure Sofri, è onnisciente. Quello che gli risulta è che oggi gli ucraini russofoni ripudiano la loro stessa lingua madre, per fare uno sgarbo all’invasore, che peraltro sostiene di essere venuto lì proprio per salvaguardare il loro diritto a parlare la lingua madre.

Chi ha raccontato queste cose all’inviato speciale Sofri? non si sa. Le ha controllate lui di persona? e come potrebbe, non sapendo né il russo né l’ucraino? Del resto, lui stesso dice che prov(a) invano a immedesimar(s)i in un ucraino che, restando nel suo paese e nella sua città, scelga di ripudiare la lingua “russa” – si è chiamata così – in cui è cresciuto. Invano. Prova. E scrive. In italiano.

Cita Josef Conrad, che non c’entra un casso. Fa il paragone con Sarajevo, e anche qui non c’entra un casso. Ma, soprattutto, non risponde alla domanda fondamentale: c’era bisogno di andare a Odessa per scrivere questa cosa qua? Lo si chiede perché sappiamo che il suo giornale riceve i finanziamenti statali, e piacerebbe tanto che assumessero un ragioniere, lì al Foglio. O ce l’hanno gia?

La scelta di rinunciare alla propria lingua, difesa estrema contro il nemico

  • Il Foglio Quotidiano
  • 25 Jun 2022
  • PICCOLA POSTA Adriano Sofri

Odessa, dal nostro inviato


Joseph Conrad, che si chiamava Józef Teodor Konrad Korzeniowski, era nato a Berdyciv, allora Russia, oggi Ucraina, ascoltò e pronunciò le prime parole in polacco, imparò il francese e più tardi, già adulto, l’inglese. In inglese scrisse i suoi grandi romanzi. E’ solo un caso, insigne ma diffuso, di un cambiamento di vita che porta con sé l’adozione di una nuova lingua. Quello che succede ai migranti di oggi, fra i quali infatti crescono alcuni dei talenti letterari più significativi del nostro mondo. E’ un’esperienza in cui ciascuno può provare a immedesimarsi.

Provo invano a immedesimarmi in un ucraino che, restando nel suo paese e nella sua città, scelga di ripudiare la lingua “russa” – si è chiamata così – in cui è cresciuto, e la senta ora come un’arma del suo nemico giurato, una delle più potenti. La lingua è il primo e il più importante modo di sentirsi a casa. I dominatori decisi a cancellare l’identità di un popolo sottomesso gli vietano l’uso della sua lingua materna, lo perseguitano fin dentro le cucine e le stanze da letto. Lo fece il fascismo con le sue minoranze. Ma qui avviene l’opposto: sono coloro che resistono all’aggressione di un despota e del suo sistema di obbedienze a scegliere di spogliarsi della lingua che ha sentito e usato come sua, la sua prima proprietà. Intendo naturalmente quella rilevante parte di ucraini che ha avuto il russo come madrelingua (uso ancora questo termine) e che in alcune regioni, e per esempio a Odessa, è, almeno fra chi non è giovanissimo, la netta maggioranza. Immagino il privarsi della propria lingua come una mutilazione. Per questo, l’adesione che una misura così drastica e dolorosa mostra di raccogliere è una riprova di quella determinazione che gli ucraini stanno profondendo sui fronti di guerra e nell’esilio. Ma è possibile che la stessa determinazione coincida in alcuni con il rifiuto di concedere al nemico la propria lingua: di riconoscergliene il monopolio. Ce n’è una controprova. Succede continuamente di sentir denunciare, dalle ucraine, dagli ucraini, la mostruosità speciale di un aggressore mandato a infierire contro persone che parlano la sua stessa lingua, e usano il suo stesso alfabeto (a Sarajevo, almeno l’alfabeto era diverso). E’ sottinteso, in questo scandalo, che la lingua comune sia un modo per comunicare, per riconoscersi, e non possa essere quella in cui si schernisce, si umilia e si tortura.

22 giugno 2022

La sinistra beota

La foto qui sopra in fondo si commenta da sola, visto che Calenda si è anche premurato di condirla con espressione ebete. Tuttavia, il problema va oltre la vacuità pariolina. Tutto il mondo è interessato dalla deriva di una sinistra che si autodefinisce “liberal” e fa confusione fra la tradizione socialista e quella di un partito radicale di massa, ossia un ossimoro. La confusione è, per cominciare, lessicale, perché c’è conflitto semantico fra “liberal” anglosassone, “liberale” europeo continentale e il neologismo “liberista“, squisitamente italiano.

Per cominciare (ma è solo l’inizio), si potrebbe contrapporre al Calenda beota questo articolo di una economista tedesca di Die Linke, apparso oggi sul Fatto Quotidiano. La cui sintesi è: “Capovolgimenti: invece di proteggere le classi più deboli, il nuovo liberalismo illuminato si è rifugiato nei quartieri alti e istruiti, tutelando per lo più i diritti civili. E la destra è diventata il moderno partito operaio

• Wagenknecht – La sinistra per ricchi

  • Il Fatto Quotidiano
  • 22 Jun 2022
  • SAHRA WAGENKNECHT Economista tedesca, membro del comitato nazionale Die Linke. I edizione: maggio 2022 © 2021 Campus Verlag Gmbh, Frankfurt am Main © 2022 Fazi Editore srl
C’era una volta la sinistra di popolo La stella rossa, tra i simboli della sinistra di origine marxista FOTO LAPRESSE

Chi volesse comprendere i motivi della nascita del liberalismo di sinistra o del declino della nostra cultura del confronto deve considerare le cause più profonde della crescente frammentazione della nostra società.

Deve fare i conti con la perdita di sicurezza e di coesione legata allo smantellamento degli Stati sociali, alla globalizzazione e alle riforme del liberismo economico. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, in tutti i Paesi occidentali si è assistito a una lunga fase di ripresa economica. Allora la maggioranza della popolazione guardava con ottimismo al proprio futuro e a quello dei suoi figli. Oggi, parlando di futuro, domina la paura e molti temono che ai loro figli andrà ancora peggio. I motivi di preoccupazione non mancano. Nello scenario internazionale siamo indietro dal punto di vista economico. Le tecnologie del futuro nascono sempre più spesso in altre nazioni. L’economia europea e l’economia tedesca rischiano di finire stritolate nello scontro tra Stati Uniti e Cina. Parallelamente, nei Paesi occidentali le disuguaglianze sono cresciute enormemente mentre le garanzie sociali in caso di malattia, disoccupazione e vecchiaia si sono ridotte. Ad avere la peggio, per colpa di un capitalismo globalizzato e senza regole, è soprattutto la cosiddetta gente comune. Il reddito di molti non aumenta ormai da anni, il che costringe queste persone a una lotta senza tregua per mantenere il proprio tenore di vita. Se qualche decennio fa i figli di famiglie disagiate avevano ancora concrete possibilità di ascesa sociale, oggi il tenore di vita individuale è determinato soprattutto dalla famiglia di provenienza. Nell’epoca attuale, a vincere sono soprattutto i proprietari di grandi patrimoni finanziari e aziendali. La loro ricchezza e il loro potere economico e sociale sono cresciuti moltissimo, negli ultimi decenni.

Tra i vincitori, però, c’è anche il nuovo ceto medio dei laureati delle grandi città, l’ambiente in cui il liberalismo di sinistra è di casa. L’ascesa sociale e culturale di questa borghesia è riconducibile agli stessi cambiamenti politici ed economici che hanno reso la vita difficile agli operai dell’industria e agli impiegati nel settore dei servizi, ma anche a molti artigiani e piccoli imprenditori. Chi però si trova sul carro dei vincitori ha un’altra visione delle regole del gioco, ovviamente diversa da quella di chi ha pescato la carta perdente. Mentre le differenze di reddito, di prospettive e di mentalità aumentavano sempre più, cresceva allo stesso tempo anche la distanza fisica. Se mezzo secolo fa i cittadini abbienti e quelli meno privilegiati condividevano spesso gli stessi quartieri e a scuola i loro figli erano compagni di banco, l’esplosione dei prezzi degli immobili e l’aumento degli affitti ha fatto sì che benestanti e meno abbienti oggi vivano in quartieri distinti. Di conseguenza sono diminuiti i contatti, le amicizie, le convivenze o i matrimoni che vadano oltre il proprio ambiente sociale.

NELLA BOLLA DELLA PROPRIA CLASSE.

È in questo aspetto che vanno individuate le cause più importanti della distruzione della coesione sociale e della sempre crescente ostilità. Due persone che vengono da diversi ambienti sociali hanno sempre meno cose da dirsi proprio perché vivono in mondi differenti. Se i borghesi laureati e benestanti delle grandi città riescono ancora a incrociare nella vita reale chi è meno fortunato, lo fanno solo grazie al prezioso lavoro di mediazione del settore dei servizi, in grado di offrire loro chi gli fa le pulizie in casa, chi gli recapita i pacchi e chi gli serve il sushi al ristorante. Le bolle non esistono soltanto nei social media. Quarant’anni di liberismo economico, di smantellamento dello Stato sociale e di globalizzazione hanno spaccato a tal punto le società occidentali che la vita reale di molti si muove ormai soltanto nella bolla in cui è situata la propria classe.

La nostra società, apparentemente aperta, in realtà è piena di muri. Muri sociali che, rispetto al secolo passato, rendono molto più difficile per i figli delle famiglie più disagiate l’accesso all’istruzione, l’ascesa sociale e il raggiungimento del benessere. E anche muri di indifferenza, che proteggono chi non conosce altro che una vita nell’abbondanza da chi sarebbe felice se solo potesse vivere senza la paura del domani. Via le spaccature, via le paure. Ora che la vita è diventata molto più incerta e il futuro più imprevedibile, i confronti politici mettono in gioco una quantità molto maggiore di paure. E che la paura sia in grado di irrigidire il clima delle discussioni ce l’ha dimostrato lo scontro sulla politica da adottare per contrastare la pandemia. La cui particolare aggressività era naturalmente legata al fatto che il coronavirus è una malattia che può portare alla morte molti anziani e, in determinati casi, anche soggetti più giovani. Al contrario, i lunghi lockdown hanno fatto sì che molti temessero per la propria sopravvivenza sociale, per il proprio posto di lavoro o per il futuro dell’impresa che gestiscono da una vita. Chi ha paura diventa intollerante. Chi si sente minacciato non vuole discutere, vuole solo resistere. È comprensibile. La situazione diventa tanto più pericolosa quando i politici scoprono che si può fare politica alimentando proprio tali paure. E a fare questa riflessione non è stata certo solo la destra.

Una politica responsabile dovrebbe fare l’esatto contrario. Dovrebbe preoccuparsi di eliminare le divisioni e la paura del futuro e di garantire più sicurezza e protezione. Dovrebbe introdurre cambiamenti che arrestino la diminuzione della coesione sociale e che ostacolino l’incombente declino economico. Un ordinamento economico in cui la maggioranza dei cittadini pensa che il futuro sarà peggiore del presente non è un ordinamento in grado di garantirlo, il futuro. Una democrazia in cui una notevole quota della popolazione non ha voce né rappresentanza non può chiamarsi tale. Possiamo produrre in maniera diversa, in maniera più innovativa, più legata al territorio e in modo più sostenibile per l’ambiente, e possiamo distribuire quanto prodotto in maniera migliore e più meritocratica. Possiamo rendere democratica la nostra collettività, invece di lasciare che qualche gruppo di interesse per cui conta solo il proprio profitto decida della nostra vita e del nostro sviluppo economico. Possiamo tornare a una convivenza positiva e solidale, che in definitiva giovi a tutti: a quelli che negli ultimi anni hanno perso e che oggi hanno paura del futuro, ma anche a quelli che se la passano bene, ma che non vogliono vivere in un paese spaccato che rischia di finire come gli Stati Uniti di oggi.

20 giugno 2022

Honte à toi, électeur français!

Leggo sul giornale di John Elkann, che fu di Scalfari:

Parigi era diventata un punto di riferimento per l'Ue. Adesso - è il timore principale che attraversa i Palazzi di Bruxelles - viene meno anche l'ultimo centro di gravità. La Germania, infatti, dopo l'addio di Angela Merkel, appare sempre più nel guado della politica con la nuova maggioranza tripartitica. Tanto che nei corridoi delle Rappresentanze permanenti, il collega tedesco viene spesso chiamato con una formula che in romanesco può essere tradotta in "Sor Tentenna".
La Commissione, presieduta da una tedesca, risente di questo stallo. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, viene giudicato a questo punto "l'unica mano sicura". Ma, è l'aggiunta piena di apprensione, "per quanto tempo?" Anzi proprio le prossime elezioni italiane - è il sospetto che serpeggia a Bruxelles - possono diventare il nuovo obiettivo della guerra ibrida del Cremlino, l'ansia delle ultime ore si basa sull'idea che anche i risultati della tornata elettorale francese siano stati condizionati dalle invadenze russe.

E' un brano che ho preso a caso, dentro a un articolo del sig.Claudio Tito, che a quanto pare la GEDI mantiene a Bruxelles. L'articolo, lunghissimo, poteva essere riassunto così: "ai burocrati di Bruxelles non piacciono i ludi cartacei".
Prepariamoci a intimidazioni varie, in vista delle elezioni italiane. L'arma più usata sarà lo spread.
Sarebbe così bello un Draghi a vita. Anzi, oltre la vita, come avvenne per Franco, Salazar e Cernienko.
19 giugno 2022

Centrismo verde

Questa cosa era su Repubblica del 18 giugno. Sommarizzando: Sala è inquieto e vuole farsi il partito. La formula è: centrismo verde. Lo vuole fare con Di Maio. Chissà chi lo finanzia.

Il polo riformista di Sala
e quel colloquio a New York
con il ministro degli Esteri

di Giovanna Casadio


Roma — —L’incontro a New York
tra Luigi Di Maio e Beppe Sala è sta-
to lungo e, come si dice in questi ca-
si, proficuo. Risale a un mese fa: en-
trambi si trovavano negli Usa, all’O-
nu. Dopo, ci sono stati i colloqui
del sindaco di Milano con il mini-
stro Roberto Cingolani, con Carlo
Calenda, e alcuni scambi d’opinio-
ne anche con Mara Carfagna. È pre-
sto per dire se le idee che il sindaco
di Milano coltiva sulla costruzione
di un nuovo polo politico riformi-
sta e ambientalista possano incro-
ciarsi anche con un’eventuale scis-
sione in casa M5S. Di certo, per ora,
c’è la considerazione di Sala per Di
Maio («Ho grande stima di lui», ha
confidato a più di un interlocuto-
re) e la determinazione con cui si
sta muovendo per costruire una re-
te che potrebbe dare vita a un movi-
mento, “una cosa politica” nuova.
Un pensiero che Sala ha da tem-
po, a cui sta lavorando di sponda
con i Verdi europei — di cui ha fir-
mato la Carta — e in particolare con
l’eurodeputato Philippe Lamberts.
Ma una operazione che ha tempi
stretti di realizzazione — se non ve-
de la luce in vista delle politiche
del 2023, rischia di naufragare per
sempre — e un problema da aggira-
re: Sala non vuole che un suo nuo-
vo ruolo nazionale porti Milano al
voto anticipato.
A Matteo Renzi e a Carlo Calen-
da, che l’hanno chiamato in causa
perché guidi il polo di centro, il sin-
daco risponde così: «Sono un mo-
derato radicale, ma siamo davanti
a un Big Bang sociale che richiede
una nuova visione, non bastano for-
mule». Soprattutto non basta l’arit-
metica di un centro non meglio
identificato, che avrebbe forse più
leader che potenziali elettori. Di
Maio però, ormai in rotta di collisio-
ne con il Movimento di Giuseppe
Conte, potrebbe rappresentare la
marcia in più per fare decollare il
progetto di Sala, il quale punta an-
che all’eredità migliore del fu Movi-
mento di Grillo (con il quale, peral-
tro, il sindaco di Milano coltiva da
tempo buoni rapporti personali).

18 giugno 2022

Finalmente ho capito il senso della “maggioranza Ursula”

16 giugno 2022

Il papa, la complessità, i giornalisti

Travaglio, l’ho detto mille volte, ha i suoi difetti. Però per prendere per il culo è senza rivali. Se aggiungiamo che, effettivamente, i giornalisti governativi ci hanno il physique du rôle, viene fuori una cosa godibile.

I vice-papi

  • Il Fatto Quotidiano
  • 16 Jun 2022
  • » Marco Travaglio

Non bastando un Papa e un Papa emerito, s’accalca al Portone di Bronzo una folla di aspiranti vice-papi, ansiosi d’insegnare a Francesco come si fa il Papa e, siccome è un gesuita, pure come si fa politica. Parlando ai direttori delle riviste europee dei gesuiti, il Pontefice ha condannato “la guerra imperiale e crudele” di Putin. Ha effuso la sua “tenerezza” per “il coraggioso popolo ucraino che lotta per sopravvivere”. E ha aggiunto ciò che tutti sanno, ma pochi dicono: “Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto”, guai a “ridurre la complessità alla distinzione tra buoni e cattivi senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi”. Il termine complessità usato due volte nella stessa frase ha insospettito le Sturmtruppen atlantiste, convinte che l’abbia inventato Orsini per arraffare qualche rublo. Ma il Papa le ha liberate da ogni dubbio: sei mesi fa “un capo di Stato, un uomo saggio che parla poco, mi ha detto che era molto preoccupato per come si muoveva la Nato: ‘Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi’”. Quindi “la guerra in qualche modo è stata provocata, o non impedita”.

Apriti cielo. Un trust di cervelli s’è scatenato a dargli lezioni di papismo. Giancarlo Loquenzi (Zapping, Radio1): “Ma se il Papa non distingue tra buoni e cattivi… e si adatta alla accidiosa tiritera ‘è tutto più complicato’ (sarebbe ‘complesso’, ma fa niente, ndr), che pastore d’anime è?”, “Che il Papa si metta a fare l’analista geopolitico mette tristezza. Andrebbe meglio consigliato”. Possibilmente da lui. O dai consiglieri che accompagnarono Renzi al suicidio politico assistito. Tipo Mario Lavia (“Non ci sono buoni e cattivi? Ma che dice il Papa?”) e Claudio Velardi (“Si può parlare – da un soglio tanto alto – con tale irresponsabilità? Che siamo, al bar sotto casa?”). Per il rag. Cerasa (Foglio) “era meglio quando i Papi non parlavano”. Eh sì, signora mia, non ci sono più i Papi di una volta: tipo Benedetto XV che nel 1917 tuonò contro l’“inutile strage” della guerra mondiale, o Giovanni Paolo II che nel 2003 condannò l’attacco Nato all’iraq. Non poteva mancare lo sbarazzino Mattia Feltri, che ricopre sulla Stampa il ruolo svolto nei circoli ufficiali dai colonnelli in pensione: sdegnato dal turpiloquio del Pontefice sulla “complessità”, lo avverte che “la sua opinione” è “inutile e infantile”. In attesa che Francesco prenda buona nota, va detto che poteva andargli peggio. Tipo finire nella prossima lista di “putinversteher” di Riotta o di “putiniani” del Corriere. Essere convocato dal Copasir, dal Dis e dall’agcom. O subire un esorcismo prêt-à-porter da Nathalie Tocci al grido di “Orsini, esca da quel Papa!”.

15 giugno 2022

Pace o giustizia? Pace, cazzo

https://www.theguardian.com/world/2022/jun/15/justice-for-ukraine-overshadowed-by-cost-of-living-concerns-study-shows

14 giugno 2022

Rinco rrierimento

13 giugno 2022

(…)

12 giugno 2022

Materialismo storico a modo mio

Marx distingue vari periodi, caratterizzati da modi di produzione diversi. I più vicini a noi sono: schiavismo, feudalesimo e capitalismo. Marx era convinto che alla fase capitalista sarebbe seguita quella comunista. Mi pare invece che si vada verso un mischione delle tre fasi, che io chiamerei neofeudale per la distinzione in sole due classi: l’oligarca finanziario e i servi della gleba, là dove “la gleba” non è territoriale ma virtuale. Tuttavia, potremmo anche discutere all’infinito sulle definizioni: quel che conta è che i servi (noi e i nostri discendenti) non avranno libertà di parola e di associazione, ma solo di azzuffarsi fra di loro, preferibilmente su questioni di lana caprina scelte dagli oligarchi e buttate in mezzo alla plebe perché, appunto, si azzuffino. Il CO2 è argomento di lite perfetto: si tratta di un prodotto naturale che non si potrà mai eliminare, e su cui, quindi, si può litigare all’infinito. E, strillando, se ne produce di più. Di qui la necessità di stanziare ingenti somme per la sua riduzione. L’esperimento scientifico e sociale è stato fatto negli anni ’80/’90 con il buco nell’ozono. Il periodo coincideva con l’esigenza, squisitamente capitalistica, di procedere all’aggiornamento dei condizionatori e alla sostituzione del freon con altri gas più convenienti per taluni produttori. Esperimento pienamente riuscito: la pubblica opinione se l’è bevuta integralmente, la storiella del buco nell’ozono pericolo per l’umanità, causato dalla massaia che si spruzzava deodorante nelle villose ascelle.
Adesso sono le scorregge delle mucche, ma se lo chiedevano a me gli avrei suggerito la legge di gravità: quale maggior pericolo per noi? Quanti bambini muoiono cadendo dai balconi? Presto, si stanzino migliaia di miliardi per renderci più leggeri.