Da qualche settimana, Adriano Sofri sostiene di essere inviato speciale a Odessa. Poiché non sarebbe la prima inesattezza da lui pronunciata, prendiamo l’affermazione con beneficio di inventario. Ma diamo l’improbabile per accertato: Sofri è a Odessa. Che ci fa? Narra la guerra, da una postazione non precisamente centrale al teatro delle operazioni, ma insomma.
D’altra parte, lui non è un inviato di guerra nel senso tradizionale. Diciamo che è uno che usma, più che l’odore della polvere da sparo, l’impalpabile sentore intellettuale dell’Ucraina in guerra. Domanda preventiva: Sofri conosce il russo? conosce l’ucraino? pare di no. Però usma.
Ed eccoci a noi: Sofri ha inteso che c’è gente russofona in quella regione dov’è Odessa. E che questa gente è la maggioranza. Gli sfugge qualche antefatto, ossia quello che è successo fra il 2014 e il 2022, ma nessuno, neppure Sofri, è onnisciente. Quello che gli risulta è che oggi gli ucraini russofoni ripudiano la loro stessa lingua madre, per fare uno sgarbo all’invasore, che peraltro sostiene di essere venuto lì proprio per salvaguardare il loro diritto a parlare la lingua madre.
Chi ha raccontato queste cose all’inviato speciale Sofri? non si sa. Le ha controllate lui di persona? e come potrebbe, non sapendo né il russo né l’ucraino? Del resto, lui stesso dice che prov(a) invano a immedesimar(s)i in un ucraino che, restando nel suo paese e nella sua città, scelga di ripudiare la lingua “russa” – si è chiamata così – in cui è cresciuto. Invano. Prova. E scrive. In italiano.
Cita Josef Conrad, che non c’entra un casso. Fa il paragone con Sarajevo, e anche qui non c’entra un casso. Ma, soprattutto, non risponde alla domanda fondamentale: c’era bisogno di andare a Odessa per scrivere questa cosa qua? Lo si chiede perché sappiamo che il suo giornale riceve i finanziamenti statali, e piacerebbe tanto che assumessero un ragioniere, lì al Foglio. O ce l’hanno gia?
La scelta di rinunciare alla propria lingua, difesa estrema contro il nemico
- Il Foglio Quotidiano
- 25 Jun 2022
- PICCOLA POSTA Adriano Sofri
Odessa, dal nostro inviato
Joseph Conrad, che si chiamava Józef Teodor Konrad Korzeniowski, era nato a Berdyciv, allora Russia, oggi Ucraina, ascoltò e pronunciò le prime parole in polacco, imparò il francese e più tardi, già adulto, l’inglese. In inglese scrisse i suoi grandi romanzi. E’ solo un caso, insigne ma diffuso, di un cambiamento di vita che porta con sé l’adozione di una nuova lingua. Quello che succede ai migranti di oggi, fra i quali infatti crescono alcuni dei talenti letterari più significativi del nostro mondo. E’ un’esperienza in cui ciascuno può provare a immedesimarsi.
Provo invano a immedesimarmi in un ucraino che, restando nel suo paese e nella sua città, scelga di ripudiare la lingua “russa” – si è chiamata così – in cui è cresciuto, e la senta ora come un’arma del suo nemico giurato, una delle più potenti. La lingua è il primo e il più importante modo di sentirsi a casa. I dominatori decisi a cancellare l’identità di un popolo sottomesso gli vietano l’uso della sua lingua materna, lo perseguitano fin dentro le cucine e le stanze da letto. Lo fece il fascismo con le sue minoranze. Ma qui avviene l’opposto: sono coloro che resistono all’aggressione di un despota e del suo sistema di obbedienze a scegliere di spogliarsi della lingua che ha sentito e usato come sua, la sua prima proprietà. Intendo naturalmente quella rilevante parte di ucraini che ha avuto il russo come madrelingua (uso ancora questo termine) e che in alcune regioni, e per esempio a Odessa, è, almeno fra chi non è giovanissimo, la netta maggioranza. Immagino il privarsi della propria lingua come una mutilazione. Per questo, l’adesione che una misura così drastica e dolorosa mostra di raccogliere è una riprova di quella determinazione che gli ucraini stanno profondendo sui fronti di guerra e nell’esilio. Ma è possibile che la stessa determinazione coincida in alcuni con il rifiuto di concedere al nemico la propria lingua: di riconoscergliene il monopolio. Ce n’è una controprova. Succede continuamente di sentir denunciare, dalle ucraine, dagli ucraini, la mostruosità speciale di un aggressore mandato a infierire contro persone che parlano la sua stessa lingua, e usano il suo stesso alfabeto (a Sarajevo, almeno l’alfabeto era diverso). E’ sottinteso, in questo scandalo, che la lingua comune sia un modo per comunicare, per riconoscersi, e non possa essere quella in cui si schernisce, si umilia e si tortura.
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