Archive for aprile, 2018

30 aprile 2018

I veri poteri forti

Panebianco dice cose che a me sembrano ovvie, ma che è raro vedere scritte. Delizioso l’eufemismo “tecnostrutture amministrative e giudiziarie“. In tutto l’articolo non si usa mai la parola in “b”. Ma se badiamo alla sostanza, questa è la diagnosi corretta. Basti pensare all’esempio del Comune di Roma: anche i sassi sanno che il problema sta nei 60.000 dipendenti, ma nessuno ne parla mai. Anzi, la prima cosa che ha fatto la signora sindaco arrivata per cambiare le cose è stata di appoggiarvisi (in molti sensi).

Siamo passati da uno squilibrio eccessivo a favore dei partiti (l’epoca della «partitocrazia») ai tempi della Guerra fredda, a uno squilibrio a favore delle tecnostrutture amministrative e giudiziarie

La centralità di quelle tecnostrutture mi fa pensare, contro l’opinione di molti, che il Movimento 5 Stelle (il cui successo è soprattutto, a mio giudizio, un sottoprodotto, un «effetto collaterale», dell’operato di quelle tecnostrutture) non sia affatto l’equivalente di una bolla speculativa, ossia un fenomeno destinato a sgonfiarsi con la stessa velocità con cui è cresciuto. Con la fine della Guerra fredda finì anche l’era del predominio dei partiti sulla vita pubblica. Ma poiché la politica non ammette vuoti, quel vuoto venne rapidamente riempito dalle suddette tecnostrutture statali. Negli ultimi trenta anni la «politica rappresentativa» è diventata debole e ricattabile.Ha dovuto cedere ampie fette di potere all’ amministrazione e alle magistrature.

Sia chiaro: la cosa è molto preoccupante ma non è così strana come si potrebbe supporre. Le democrazie sono sistemi complessi in cui varie forze, di differente origine e con differenti funzioni (partitiche, economiche, statali, eccetera) si influenzano e cercano di imporsi reciprocamente il predominio. Talvolta si genera un equilibrio fra queste forze e allora la democrazia vive i suoi momenti più felici. Altre volte si generano squilibri e alcune forze diventano prevaricanti. In Italia siamo passati da uno squilibrio eccessivo a favore dei partiti (l’epoca della «partitocrazia») ai tempi della Guerra fredda, a uno squilibrio a favore delle tecnostrutture amministrative e giudiziarie nel periodo seguente.

Per capire il rapporto che c’è fra la potenza di quelle tecnostrutture e il successo del Movimento 5Stelle bisogna sapere che , pur diverse , e spesso fra loro in conflitto , pubblica amministrazione e magistrature hanno in comune due cose: una bestia nera e una vocazione. La bestia nera è rappresentata dai tentativi che di tanto in tanto la politica rappresentativa fa per risollevare il capino, per riguadagnare le posizioni politiche perdute. Quando ciò accade le tecnostrutture si compattano e vanno all’attacco: distruggere il potenziale uomo forte impegnato in quel tentativo presentandolo al pubblico come un novello Mussolini diventa per esse vitale. Perché esse mantengano la posizione dominante che hanno acquistato dai tempi di Mani Pulite occorre che la politica resti per sempre debole. Le tecnostrutture in questione possono convivere pacificamente solo con gruppi ed esponenti politici disposti ad inginocchiarsi in loro presenza e a baciare l’anello.

Oltre a una bestia nera, quelle tecnostrutture hanno in comune una vocazione o, se si preferisce, un orientamento culturale. Si tratta di un orientamento che oscilla fra l’indifferenza e l’ostilità verso l’economia di mercato. Basta osservare come l’amministrazione difenda con le unghie e coi denti un’ impalcatura normativa fatta apposta per tenere in scacco le imprese e lontani dal Paese gli investitori esteri (la vera causa dell’ elevata disoccupazione giovanile). Certamente, l’ incultura di molti parlamentari contribuisce al risultato ma la sudditanza della politica rispetto all’amministrazione (la sola in possesso delle competenze tecnico-giuridiche ) fa sì che su quest’ultima ricadano responsabilità pesanti. O si pensi ai gravissimi danni economici a carico della collettività prodotti da avventati procedimenti giudiziari contro aziende,i quali, molti anni dopo, finiscono , spesso, con assoluzioni «per non aver commesso il fatto». Per formazione (esclusivamente giuridica) e per forma mentis , gli esponenti di quelle tecnostrutture sono spesso refrattari a qualunque calcolo economico, e disinteressati – quando non ostili per principio- alle esigenze di aziende e mercati.

I 5Stelle , con il loro apprezzamento per l’espansione della spesa pubblica e la loro ideologia anti-industriale tanto spesso manifestata (checché ne dica l’ultima versione del loro cosiddetto «programma elettorale»), hanno dato ampie prove di condividere lo stesso orientamento. Soprattutto, i 5Stelle sono la conseguenza, l’effetto finale, di una grande bugia che , negli ultimi trenta anni, è diventata una verità pubblica indiscutibile per moltissimi italiani: la grande bugia secondo cui la «corruzione percepita» ( per la quale questi nostri concittadini credono che il loro Paese sia il più corrotto d’Europa o giù di lì ) e la «corruzione reale» (la corruzione che davvero c’è in Italia) coincidono. Se non che, la corruzione reale — misurata dalle sentenze passate in giudicato nonché da osservazioni sui comportamenti degli operatori — risulta essere , punto più punto meno, nella media europea. L’Italia sembra a tanti italiani così massicciamente corrotta soprattutto a causa delle inchieste giudiziarie qui molto più numerose che altrove (e del connesso rumore mediatico) : un fenomeno che, a sua volta, dipende dal diverso rapporto di forze che c’è in Italia fra magistratura inquirente, politica ed economia , rispetto a quello che si dà in altri Paesi europei . E’ la trentennale attività del «circo mediatico giudiziario» ad avere diffuso e imposto la grande bugia.

Ci sono evidenti affinità fra i 5Stelle e i più potenti del Paese . E’ certo che del volere di questi ultimi essi sarebbero i disciplinati esecutori. Inoltre, c’è piena coincidenza fra certi stereotipi che le tecnostrutture, con la loro azione, hanno diffuso nel Paese e la «cultura politica» (per ciò che fin qui se ne è compreso ) dei 5Stelle. Non danno l’impressione di essere una bolla speculativa

26 aprile 2018

L’irrilevanza dell’economista

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Di poche cose sono certo. Una di queste è: le idee degli economisti non hanno alcun impatto sulla realtà. Se proviamo a scorrere la storia del cosiddetto pensiero economico (disciplina noiosa e poco concreta, che conta un numero striminzito di cultori, più o meno quanti sono i sostenitori del Venezia FC: e infatti io sono uno di quelli) ci accorgiamo che, a parte boutades del tipo: Aristotele fu il primo economista, prima del secolo XVIII a nessuno venne in mente che questa fosse una disciplina dello scibile, e che solo dopo la metà del secolo successivo si diffusero le cattedre di economia nelle università europee. L’unico economista che ebbe un’influenza sulla realtà fu, naturalmente, Karl Marx. Ma oggi non esiste neppure un marxista che accetti di imparentare le esperienze del “socialismo reale” con le idee del filosofo di Treviri. Quindi non le idee di Marx, ma l’uso del nome di Marx ha segnato gli ultimi 150 anni. Un altro che apparentemente ha avuto influenza è Keynes. Ma anche qui dobbiamo distinguere: se accettiamo una estrema banalizzazione delle idee dell’economista inglese, quella che si risolve nel mantra sindacal-populista che alzando gli stipendi degli statali si dà impulso all’economia, allora certo: Keynes ci ha influenzato parecchio, e ha pure contribuito a renderci più poveri e infelici. Io però non mi sento di dare la colpa a Keynes, come non penso che i produttori di coltelli da cucina siano responsabili degli sgozzamenti dell’ISIS.

Mentre, comunque, nel caso di economisti “interventisti” posso capire l’equivoco, che dire degli economisti non interventisti, dei quali Milton Friedman è l’alfiere moderno? Per definizione non hanno colpe, né possono essere “abbandonati” più di quanto abbia senso abbandonare una nave che non ha mai lasciato la banchina del porto.

Se poi andiamo a leggere l’articolo il cui titolo campeggia qui sopra, lo troveremo esecrabile. Per tre motivi:

  1. E’ esecrabile la traduzione dall’inglese, e che il testo italiano sia, verosimilmente, la composizione di due o più articoli, dei quali sull’edizione americana di Business Insider rinvengo solo il primo;
  2. E’ esecrabile il riassunto delle opinioni di Stiglitz, il quale, sebbene non sia fra i miei idoli, non dice banalità così sconvolgenti
  3. E’ esecrabile, chiunque ne sia il padre, la sintesi del pensiero di Friedman, dalla quale si evince che, avendo egli detto che gli azionisti sono i padroni delle aziende, le sue idee sono l’origine delle disuguaglianze sociali negli Stati Uniti.

E pensare che lì in mezzo c’è un’idea molto giusta: che le corporations americane hanno troppo interesse ai risultati trimestrali, ossia tendono a privilegiare i risultati breve/brevisssimo  termine. Questo è un difetto acclarato del mondo americano del business. Che cosa ciò abbia specificamente a che fare con Friedman rimane misterioso, e come aumenti le disuguaglianze sociali è parimenti un mistero. D’altra parte, se prendiamo gli investimenti come indicatore virtuoso di una visione a lungo termine, noi vediamo che la percentuale  sul Prodotto Interno Lordo è di circa il 20% nel G7, con gli Stati Uniti un po’ sopra la media, e l’Italia molto sotto (16,7%). Per dire: un Paese, il nostro, dove Milton Friedman è considerato più o meno come Jack lo Squartatore.

25 aprile 2018

Miglioramenti

Io non ho visto molte persone migliorare invecchiando, e tra le poche non c’era neanche un giornalista. Succede, invece, per Paolo Mieli, che, libero da incombenze direttoriali, sta infilando una serie di lucidi interventi, sia in televisione che sulla carta stampata (e fa piacere notare che questa carta sia quella, altrimenti sgualcitella, del Corriere). Essere lucidi, a volte, significa cogliere l’ovvietà dove tutti gli altri o non la vedono o fanno finta di non vederla. Per esempio, trattativa Stato-Mafia. Possibile che nessuno si sia accorto che, sebbene in una trattativa ci debbano necessariamente essere almeno due parti, dal processo, e relativa sentenza, è rimasta fuori la parte oggettivamente più interessante, ossia lo Stato? E che, poiché i processi penali si fanno alle persone fisiche, mancano i nomi e i cognomi dei politici e degli alti burocrati che avrebbero trattato? E che, sebbene i nomi sia semplicissimo farli, perché si tratta di ministri e direttori generali di ministeri, pudicamente nessuno li ha fatti?

Qui.

21 aprile 2018

Il Corriere della Serva

La notizia più importante di oggi:

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(Va da sé che “sopperire” è verbo intransitivo).

 

16 aprile 2018

Politically correct? forestiero fu, forestiero è

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Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale, 1911

11 aprile 2018

La democrazia è in pericolo? No: la democrazia è un pericolo

Da 2 millenni e mezzo, e cioè dalla condanna di Socrate, si discute del possibile degrado della democrazia, tanto che è pure invalso un luogo comune detto paradosso della democrazia. Il problema è virtuosamente definito come la possibilità da parte della maggioranza, o di chi, avendo la maggioranza, detiene il potere, di fare cose brutte. Ne consegue una serie di attentati ai coglioni dei lettori di quotidiani e dei telespettatori, nonché dei fruitori di facebook e simili network. Il più ovvio e martellante  riferimento storico sono le elezioni del 1933 in Germania. Questo riferimento è però così usurato che è diventato autolesionistico: è evidente che chi si riduce a farne uso è dialetticamente all’ultima spiaggia. Perciò, si sono venute sviluppando argomentazioni un po’  più sofisticate: le quali hanno, comunque, lo stesso comune denominatore: delegittimare chi, pur stando sul cazzo a chi  parla/scrive, ha avuto la sfrontatezza di essere democraticamente eletto. Benché questa capriola logica sia accessibile, in teoria, a chiunque, risulta dall’esperienza degli ultimi decenni che solo intellettuali di sinistra ne fanno uso. Non sappiamo perché, ma è così.

Momento. Lo avevamo appena detto, e guarda qui: abbiamo il più giovane e rampante critico della democrazia e dei suoi pericoli, Yascha Mounk, lodato proprio dal Foglio. 

Ma non deviamo. Questo Yascha si è rapidamente guadagnato i galloni di fustigatore dei sistemi democratici, e detta legge nei circoli liberal. Ce l’ha coi populisti, e naturalmente fa parte della schiera dei nemici di Trump. Vive e scrive in America ma, essendo di origini europee (ebreo tedesco, come non cessa di ricordarci: ma a noi, che cazzo ce ne frega se lui è ebreo? E tedesco?) vuole pontificare anche sui populismi e le democrazie del Vecchio Continente. Imperdibili, al riguardo, le sue valutazioni sulle elezioni italiane e ungheresi. Stronzate dilettantesche, che nessun media di questa parte del modndo avrebbe il coraggio di pubblicare, salvo sponsorizzazione di Soros, e invece vanno per la maggiore di là dell’Atlantico, perlomeno in certi circoli.

La sostanza delle argomentazioni del ragazzo è che con la maggioranza i cattivi (pur regolarmente eletti) fanno in modo di modificare le regole e, inoltre, acquisire il monopolio dei media, in modo da vincere infallibilmente le successive elezioni. Roba che Berlusconi e Renzi potrebbero prenderlo a schiaffi.

9 aprile 2018

Horror

7 aprile 2018

Adam Smith e i grillini

The annual labour of every nation is the fund which originally supplies it with all the necessaries and conveniencies of life which it annually consumes, and which consist always either in the immediate produce of that labour, or in what is purchased with that produce from other nations.

According, therefore, as this produce, or what is purchased with it, bears a greater or smaller proportion to the number of those who are to consume it, the nation will be better or worse supplied with all the necessaries and conveniencies for which it has occasion.

But this proportion must in every nation be regulated by two different circumstances: first, by the skill, dexterity, and judgment with which its labour is generally applied; and, secondly, by the proportion between the number of those who are employed in useful labour, and that of those who are not so employed. Whatever be the soil, climate, or extent of territory of any particular nation, the abundance or scantiness of its annual supply must, in that particular situation, depend upon those two circumstances.

Questa è l’apertura della famosa opera di Adam Smith. Nessuno, per due secoli e mezzo, ha mai messo in discussione la verità contenuta nel primo passaggio grassettato, ossia che la ricchezza di una nazione è data dalla quantità di beni e servizi utili che essa si può assicurare nell’unità di tempo. Va notato che neppure Marx e i suoi epigoni, ivi inclusi coloro che cercarono di applicarne i dettami sul campo, furono mai in disaccordo.

Anche il secondo passaggio grassettato non è stato, che ci risulti, contestato da nessuno, salvo un’eccezione: l’Italia. L’unicità e originalità dottrinale  del nostro paese, o almeno di una consistente parte della nostra società, sta nel non fare distinzione fra lavoro utile e non. E’ ben vero che neppure Marx,. che italiano non era, parlava di lavoro non utile, ma questo avveniva per il fatto che il filosofo di Treviri aveva in mente il lavoro salariato dell’epoca, dando giustamente per scontato che il padrone non concedesse nicchie di fancazzismo.

Nell’Italia degli ultimi 50 anni, invece, si è venuta non solo consolidando un’area protetta nella quale il lavoro può non essere utile, ma si sono anche sviluppate dottrine politico-sociali-economiche che negano qualsiasi superiorità, economica o etica, del lavoro produttivo. Va qui specificato che Adam Smith trattava il lavoro non produttivo per categorie di lavoratori, mettendoci dentro, oltre al sovrano, anche professioni come quella legale, militare, medica, nonché due categorie molto vicine fra loro: letterati e servi. Nell’Italia di oggi, invece, quei pochi che posseggono discernimento capiscono che il lavoro improduttivo è trasversale alle professioni, anche se  ne è visibile una presenza maggiore là dove, istituzionalmente, non c’è controllo sulla performance. Quanto alle dottrine sviluppatesi in difesa di queste aree di improduttività, si tratta tradizionalmente di roba molto grezza, che si sviluppa intorno a un paio di pilastri logici:

  • Negare l’evidenza
  • Sostenere che Keynes ha detto che i fancazzisti sviluppano il PIL, spendendo lo stipendio.

Recentemente, però, la dottrina si è evoluta, inglobando almeno due altri concetti:

  • La solidarietà sociale impone di retribuire anche chi non lavora
  • La robotica e l’intelligenza artificiale porteranno comunque a eliminare presto il lavoro umano

Non si può negare che, in prospettiva, questi due argomenti abbiano il loro peso. Si tratta, tuttavia, di argomenti da maneggiare con cura, e da non affidare a apprendisti stregoni. Speriamo di non dover dire ‘a fessa è gghiuta ‘mmano a ‘e ccriature.

 

 

 

 

5 aprile 2018

Buon sangue non mente

Si ragionava, tempo fa, sull’ininterrotta tradizione “busiarda” de “La Stampa”, e lo si faceva a proposito di un articolo nel quale si dava conto di un improbabile atto di onestà, performato da un’improbabile coppia di extracomunitari a favore di un improbabile “scrittore”. Tutto ciò, è chiaro, per fini di edificazione del lettore. Poiché buon sangue non mente, ecco il noto Gramellini, che scrive sul Corriere ma proviene dalla Stampa, confezionarci quasi esattamente la stessa storia, e trarne esattissimamente la stessa morale. Questa volta il protagonista è solitario e comunitario, ma appartiene a un Paese che ha scelto, come primo atto di amicizia dopo l’entrata nell’UE, di inviare in dono agli altri 27 partners un congruo numero di pregiudicati, liberandosene. Logico che, sotto un profilo squisitamente sociologico, i componenti di quella comunità nazionale che risiedono da noi siano circondati da un qualche sospetto. E’ la statistica, bellezza. E la statistica è l’anima della sociologia. Ma per Gramellini la sociologia è “luogo comune”. Leggiamo la parte finale della sua fatica mattutina, avvertendo che Federico è il nome (improbabile) di un improbabile facchino romeno che dedicherebbe il tempo libero a ricercare coloro che smarriscono portafogli. I quali sono infallibilmente uomini di penna. Era “scrittore” il proprietario del portafogli restituito dalla coppia di extracomunitari, è giornalista il beneficato da Federico il romeno. Si sa, genio e sregolatezza, o sbadataggine, vanno insieme: pare che Hegel sia entrato in una biblioteca senza una scarpa, rimasta incollata al fango della strada. Ma veniamo al brano in questione:

Accidenti a te, Federico, abbattitore seriale di luoghi comuni. Esistono stranieri minacciosi che bivaccano ai margini delle nostre strade e paure, così come esistono poveri cristi senza un impiego che necessitano di un salario per sopravvivere. Ma tu sembri atterrato apposta su un tappeto di pregiudizi per rammentarci che non è la nazionalità a fare di qualcuno una persona perbene, e che c’è ancora chi ambisce a guadagnare soldi alla vecchia maniera: lavorando.

Per contrappasso, viene irresistibile alla mente la battuta che circola da sempre sulla professione di giornalista: sempre meglio che lavorare.

Invece, sull’uso della parola “seriale” è lecito ogni dubbio: quanti portafogli ha trovato Federico? E come mai li trova sempre lui?