Archive for marzo, 2019

21 marzo 2019

Economics for dummies (3)

Per capire quello che diceva Keynes, propongo  questo grafico, preso da un vecchio testo:

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Ritengo sia di più immediata comprensione percorrerlo a ritroso (da sinistra verso destra), perché si va direttamente a parare su faccende di attualità, per esempio il reddito di cittadinanza.

Dunque: il reddito nazionale è funzione della domanda, ossia della richiesta di beni espressa dalla propensione al consumo degli individui. Pertanto, se do più soldi a un povero, questo li spende tutti (alta propensione al consumo), mentre se ne do di più a un ricco, ne risparmierà una parte, e li metterà in banca. Ecco quindi il circolo virtuoso, e persino democratico: se gli individui consumano, gli imprenditori investono, e così generano occupazione, che a sua volta genera maggiori consumi. Lo Stato si inserisce in questo processo mediante la spesa pubblica, che mette risorse a disposizione della collettività. Il meccanismo si chiama moltiplicatore e acceleratore keynesiano.

Bene: applichiamo questi concetti al sistema economico di un paese qualsiasi. Cominciamo dal Burkina Faso. Allora: nel 2012, il Burkina Faso aveva un reddito annuo procapite di $636. Sì. Annuo. Vi pare una buona condizione perché ci sia un’alta propensione al consumo? Sì, credo di sì. Allora: supponiamo di prendere 10 miliardi di dollari, e distribuirli fra tutti gli abitanti del Burkina Faso. Possiamo giocarci le palle che li spenderanno tutti o quasi (altissima propensione al consumo). Secondo Keynes, gli imprenditori del Burkina Faso salteranno sul cavallo vincente, investiranno, assumeranno maestranze e da lì l’economia del Burkina Faso decollerà.

Secondo noi, invece, i beneficiari della regalia compreranno beni dall’estero, oppure useranno i soldi per espatriare. Il Burkina Faso resterà sfigato come prima.

Ma forse, si obietterà, il ragionamento di Keynes si applica alle economie sviluppate. Per esempio, l’Italia. E in effetti, di economisti keynesiani, o di orecchianti keynesiani, o di keynesiani da fiera di paese qui ne abbiamo tanti.

Allora: diamo il reddito di cittadinanza a un certo numero di sfigati. Lo spenderanno tutto, aumentando la domanda.  Gli imprenditori investiranno di più, aumentando l’occupazione e innescando il circolo virtuoso? Speriamo.

Ma la domanda fondamentale è: qual è il range entro quale la regola è valida? Mi spiego per estremi: se tutti e 60 milioni riceviamo il reddito di cittadinanza senza fare niente, non si sa con quali risorse veniamo pagati, e chi sia che dà occupazione. Se, al contrario, nessuno riceve nulla, il moltiplicatore non può funzionare.

Bisogna pertanto capire qual è un buon equilibrio fra spesa pubblica e risorse private. Poi, nell’ambito della spesa pubblica, distinguere fra spesa corrente e spesa per investimenti. Tutte le persone ragionevoli sono d’accordo sul fatto che c’è, in proporzione, troppa spesa corrente e troppo poca spesa in conto capitale. Mettiamola in altro modo: il reddito di cittadinanza c’è già da almeno 50 anni, e in misura ingente, ma di questo moltiplicatore e di questo acceleratore non si vede traccia, se non nei discorsi del sig.Di Maio.

Alle persone di buon senso, anzi, pare che lo Stato faccia demoltiplicazione e soprattutto decelerazione. Probabilmente, è un fatto culturale. Insomma, anche l’Italia è come il Burkina Faso.

E’ quindi possibile che le teorie keynesiane si applichino solo alla Gran Bretagna, per la quale sono state pensate. Ma pare che lì non ne vogliano sapere.

7 marzo 2019

Il migliore

Se mi chiedono chi è il migliore, fra gli scribacchini italiani, rispondo subito: Filippo Facci. Non solo perché abbiamo le stesse passioni (musica e montagna; non cito la terza perché sarebbe banale). A me pare che sia quello che ha più visione, più incisività; e scrive anche ragionevolmente bene. Non benissimo: benissimo scrive Elisabetta Rasy.

Di Facci: due esempi recenti. Imperdibile il secondo.

ZINGARETTI VUOLE DUE DONNE

«Bisogna fare qualcosa per i giovani, per gli anziani e per gli uomini». La vignetta era di Altan, e forse non era testualmente così: ma quasi, e la provenienza de sinistra (l’Espresso) rendeva ancora più eloquente quel tic di correttezza che ormai annullava la percezione dei veri bisogni a vantaggio dell’ovvio, della formuletta di rito, ergo delle «donne» come categoria comunque a parte. «Donne» per non sbagliare, un automatismo, un riflesso condizionato, come un «amen» a fine preghiera.

Ecco: la stessa sensazione di prurito si poteva avvertirla, l’altro giorno, nell’apprendere gli slanci programmatici di Nicola Zingaretti per come il Corriere della Sera aveva deciso di titolarli. Perché certo, c’è da fortificare anzitutto il «Si Tav» in salsa Pd, visto che in Piemonte si vota e il «No Tav» grillino è quello che più imbarazza Matteo Salvini. E poi certo, c’è da rispondere a tono al grillume che ora straparla di «salario minimo garantito», quando il Partito Democratico – tsè – se ne occupa già dal Pleistocene e ha pronta una sua inappuntabile proposta. E poi certo, già, sì, come si chiamano: le autonomie, per le quali il Partito Democratico non ha pronto un accidente, però fa niente, basta dire «la stanno preparando» e va bene.

Insomma, viene perdonato proprio tutto a un nuovo messia che da segretario del Pd deve traghettare il Pd fuori dal Pd: quindi anche frasi tipo «non si può fare politica solo nei palazzi» (l’ha detta davvero) e anche l’annuncio di fondamentali «forum tematici aperti alla società civile» (dio-mio) che secondo il Corriere della Sera saranno «guidati secondo un sacrosanto rispetto della parità di genere», «se ci sarà un uomo a capo del dipartimento, a coordinare il forum sarà una donna o viceversa». Il Corriere (e probabilmente anche il Pd) la parola «Forum» la scrivono maiuscola, noi no, non ce la facciamo. Anche perché ci siamo, il punto di non ritorno è dietro l’angolo, eccolo troneggiare nel titolo di pagina 4 del Corriere: «Zingaretti pensa a due donne come vice».

Pensa a due donne. Non a due cani. Non due panda. Non due cactus. Non due grattugie elettriche. Due donne, presente? Intese come la più rapida e snella alternativa all’essere umano, agli homines sapientes. Due donne, non due brave e preparate (intese come persone) o comunque sintonizzate sulle frequenze che le dirigenze piddine non riescono più a ritrovare.

Il retroterra è lo stesso per cui Il Messaggero, ieri, annunciava che una siciliana è stata proclamata dalla Michelin «la più brava Chef Donna 2019», perché mica è uno chef, o una chef, macché, è una «chef donna», categoria a parte, novità assoluta come può esserlo una donna che si occupi di cucina.

O, forse, il retroterra è quello secondo il quale in Italia c’è solo un’azienda – fonte Ansa – che paga nello stesso modo uomini e donne: ed è la Philip Morris, quella delle sigarette sporche e cattive, una multinazionale che ha ricevuto la certificazione «Equal Salary» (attestato dell’omonima Fondazione) e che conta di raggiungere, entro tre anni – zitta zitta, e senza quote rosa, o quote Zingaretti- il target del 40 per cento di presenza femminile nelle posizioni manageriali.

E poi è chiaro, c’è il nuovo Pd di Zingaretti, «il partito di cui ha bisogno l’Italia per opporsi al populismo e alle destre che vogliono impedirle di volare»: questo si leggeva margine di un incontro che il 23 febbraio scorso spiegava che «le donne del Pd vogliono essere protagoniste e sono impegnate in prima fila nelle primarie scegliendo Nicola Zingaretti come candidato segretario».

Le donne: l’altra metà del cielo per chi ha l’abitudine, il cielo, di dividerlo a spicchi. Aspettando di avere, come vice, due immigrati (due immigrate sarebbe perfetto) o altre categorie di non-uomini che rischino di impattare sull’elettorato – è su questo che a sinistra non hanno capito niente – con un effetto Kyenge, la ex ministra nominata perché era nera e che non si poteva rimuovere perché era nera, un po’ come Josefa Idem che per qualche ora divenne ministro solo perché donna e perché olimpionica.

E il discorso, beninteso, potrebbe continuare anche a destra perché questo resta un Paese sottosviluppato, una democrazia immatura che abbisogna di continue dimostrazioni a se stesso mentre le care e vecchie categorie asessuate e ormai considerate da vecchi – il curriculum, l’esperienza, le capacità dimostrate – sono state spazzate via dall’armata parlamentare dei senza curriculum, senza esperienza, senza capacità e spesso palesemente senza cranio.

(Libero, 6 marzo 2019)

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5 marzo 2019

Zero inventory and zero brain

easyplanet-gestione-magazzino-33167rzonz1mnsfx9i9g5cDomandarsi che studi ha fatto un tizio, per verificarne la congruenza con gli argomenti su cui si esprime, e eventualmente criticarlo, può essere iniquo. Conosciamo, anche personalmente, casi di splendidi autodidatti. Tuttavia, se un laureato in lettere vuole sparare sentenze su argomenti economici, e buttarla pure sul tecnico, gli va consigliata prudenza.

Prudenza che non è fra le doti del noto F.Fubini, che se la tira da economista un giorno sì e uno sì. Oggi ci spiega come mai c’è recessione nell’ultimo semestre 2018. Sarebbe per un fatto psicologico, che attanaglierebbe  gli industriali. Definito con la parola più sprezzante usata dai moralmente superiori: paura. Come fa Fubini a saperlo? Gli è bastata un’occhiata ai dati ISTAT: il diagnosta Fubini ha subito notato che le scorte sono calate.

Ciò che è stato negativo, tanto negativo da prevalere su tutti gli altri ingredienti, è stato il dato sulla cosiddetta «variazione delle scorte». In altri termini le imprese hanno fortemente rallentato la produzione, come si vede anche dal calo evidente delle ore lavorate, e oggi puntano a svuotare i magazzini. Non si preparano a una stagione positiva, al contrario.

Purtroppo, il sig.Fubini non ha mai visto una fabbrica, neppure da lontano. Dubitiamo anche che entri spesso in un supermercato. Stradubitiamo, poi, che faccia personalmente acquisti in internet. E, quanto a cursus studiorum (*), è fermo a Cicerone. Se avesse, invece, fatto le esperienze giuste, saprebbe che:

  1. La variazione del magazzino si applica alle sole aziende produttive e/o commerciali, che trattano manufatti  non prodotti per commessa;
  2. E’ possibile, ma non certo, che il dato esaminato – pardon: intravisto – da Fubini riguardi anche i lavori in corso delle aziende che lavorano per commessa;ad esse, tuttavia, non sarebbe possibile applicare il ragionamento di Fubini;
  3. E’ invece impossibile (non improbabile: impossibile) desumere alcunché dalla variazione delle scorte in un solo trimestre, specie l’ultimo dell’anno, che è così pesantemente collegato al bilancio e alle imposte. In ogni caso, la valorizzazione che andrà a bilancio non è ancora disponibile;
  4. Le aziende che producono e vendono prodotti fisici sono ormai una minoranza, se comparate alle aziende che vendono servizi. Queste ultime hanno, è vero, una voce di bilancio che richiama il concetto di scorte (“commesse in corso”) ma i criteri di valutazione sono assai discrezionali;
  5. Impossibile considerare attendibili i dati dell’ISTAT, quando anche le singole imprese ignorano quale sia il valore del loro magazzino in un certo momento;
  6. Ingenuo dare un valore negativo al calo delle scorte: ormai da decenni le aziende puntano a “zero inventory”, e chi raggiunge questa invidiabile condizione va sui libri di testo (quelli che Fubini, occupato con Cicerone, non ha mai letto) come azienda modello e, soprattutto, profittevole.
  7. Le aziende profittevoli sono quelle che aumentano il PIL. Queste aziende, oggi, o sono nei servizi, oppure, se manifatturiere, tengono le scorte al livello più basso possibile.
  8. Gli speculatori finanziari (tipo Soros, per intenderci) queste cose le sanno, ma non è detto che le spieghino ai consiglieri di amministrazione delle loro fondazioni…ehm…benefiche.
  9. Ma che cazzo ne sa Fubini di ciò che pensano gli imprenditori?

(*) espressione maccheronica, lo so. Ma adatta.