Nessuno può negare che, fra i generi musicali, quello entrato più in crisi nel secondo dopoguerra sia l’opera lirica. Per quanto mi riguarda, le ultime opere della storia sono quelle di Benjamin Britten.
Dare Les Dialogues des Carmélites di Poulenc in forma di concerto è in sé azione non condannabile. Darla a pezzi (“un’ampia selezione predisposta da Stéphane Denève”, che sarebbe il direttore) è, invece, atto temerario, perché un’opera contemporanea non è come un’opera dei secoli precedenti, dove c’erano le arie e i recitativi, per cui potevi fare un concerto di sole arie. Un’opera contemporanea è, piuttosto, un’opera di soli recitativi: ragion per cui rompere la continuità drammatica equivale a annullarne la natura stessa di pezzo teatrale. Pazienza: ci si mette sul lato dell’orchestra e si fa finta che i cantanti non ci siano. Peccato quello scalpiccìo dovuto all’entrata e uscita dei solisti. Si vede che nessuno gliel’aveva spiegato, che l’opera era in forma di oratorio. L’operazione di escludere acusticamente i cantanti è stata peraltro facilitata dalla scarsa potenza delle voci, fatta eccezione per il mezzosoprano Sylvie Brunet.
In precedenza, c’era stato lo Stabat Mater dello stesso Poulenc. Partitura sostanzialmente tonale, salvo qualche excursus non verso la modernità ma, al contrario, verso il gregoriano. Non si tratta, tuttavia, di un medioevo da burla, tipo Orff, ma di una bella immedesimazione, in un ambiente musicale venato di atmosfere verdiane.
Il maestro Denève si veste come un pagliaccio, e questo è male. Per il resto, ha fornito una prova dignitosa, aiutato dall’orchestra e dal coro (un po’ meno dai cantanti solisti). Molto bene, in particolare, la sezione maschile del coro.
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