

When I makes tea I makes tea, as old mother Grogan said. And when I makes water I makes water.
Qualche giorno fa il banchiere d’affari della Rothschild, nonché presidente protempore della Repubblica francese, Emmanuel Macron ha affermato, compunto, che è “finita l’era dell’abbondanza e della spensieratezza”. E’ giunta l’era dei sacrifici.
E giù applausi in eurovisione per la dimostrazione di sobria consapevolezza e responsabile tranquillità.
Già perché la crisi energetica, la guerra in Ucraina, come prima la pandemia, come prima ancora la Crisi Subprime, come in futuro lasciamoci stupire, sono sempre grandiose causali per chiedere spirito di sacrificio e abnegazione, “senso di responsabilità”, e solo dei maledetti “sdentati” (cit. Hollande) privi di queste virtù civiche potrebbero opporsi.
Come dar torto a questo generoso richiamo all’essere tutti nella stessa barca: i sacrifici li faremo tutti, Macron rinunciando alla riverniciatura dello Yacht e Gino il barbiere chiudendo bottega e andando a dormire sotto i ponti.
Quel che è giusto è giusto.
Ecco, prima di essere sopraffatti da cotanta equanimità, rammentiamo un dettaglio. Oggi il denaro non è innanzitutto un mezzo per l’accesso al consumo; naturalmente lo è anche, ma non è questo il suo principale significato sociale.
Il denaro, quando disponibile in quantità estremamente asimmetriche, enormi ad un estremo, minime ad un altro, è innanzitutto Potere: è esercizio di potere sul prossimo.
Il denaro in grandi concentrazioni è potere politico, è potere mediatico, è potere di ricatto, è potere senza aggettivi.
Ergo, quando uno come Macron o chi per lui chiede sacrifici alla massa di quelli che hanno margini modesti, sta proponendo loro – con proverbiale garbatezza – di diventare i suoi futuri servi della gleba (e lui il vostro amichevole feudatario).
Non vi sta chiedendo di rinunciare alla “consueta spensieratezza” (e chi l’ha vista?), vi sta chiedendo di trasferire la presente sproporzione assoluta tra il vertice e la base della piramide nel nuovo mondo coraggioso che stanno approntando, in cui la base della piramide, impoverita in modo terminale, sarà semplicemente alla completa mercé del vertice.
Ecco, quando ci chiedono sacrifici, da ora alla fine dei tempi, rispondiamo pure che certo, siamo tutti disposti a fare la nostra parte, se necessario. Ma non in qualunque ordine.
Di fronte a nobilissime cause che chiedono sacrifici, di fronte ad appelli al bene superiore che non possono essere elusi, daremo tutti il nostro contributo, ma solo un quarto d’ora dopo che TUTTI quelli – individui o gruppi – che hanno patrimonializzazioni di decine o centinaia di volte le disponibilità medie le avranno ridotte a proporzioni commensurabili (non pretendiamo uguali) con quelle degli “sdentati”.
Quando questo accadrà saremo tutti nella stessa barca e una nuova felice era di corresponsabilità avrà avuto luce.
Ma finché questo non accade evitate di prenderci in giro, perché non tira aria.
(Andrea Zhok)
(Poi la smetto)
L’altro giorno l’ex ministro dello sviluppo economico Calenda ha proposto, di fronte all’emergenza energetica, di sospendere il processo elettorale in corso per arrivare immediatamente al nuovo governissimo (lo chiama “patto repubblicano”).
In certo modo Calenda si mostra più onesto dei suoi critici in PD e Lega, e vuole liquidare subito le correnti formalità, in cui fingeranno come al solito di avere chissà quali divergenze, per poi arrivare al nuovo governone “tutti dentro” e darci il colpo di grazia senza che nessuno paghi dazio.
Ma pur riconoscendo l’onestà di Calenda io proporrei una strategia diversa per risolvere l’emergenza energetica.
Potremmo inviare a Mosca Mattarella con il seguente messaggio:
“Memori del comune retaggio cristiano, anche noi in Italia siamo consapevoli del profondo significato del pentimento.
Ci dichiariamo perciò pentiti di esserci buttati in un conflitto che non ci riguardava, dopo averlo ignorato per otto anni, solo per compiacere gli alleati americani. Cesseremo perciò con efficacia immediata ogni ulteriore invio di armi ed aiuti, dichiarando la nostra duratura neutralità.
Ci dichiariamo altersì pentiti per l’immonda campagna di persecuzione etnica scatenata nei confronti dei russi in quanto russi, in contrasto con la decenza e con i tradizionali sentimenti di amicizia diffusi nel popolo italiano verso quello russo. Ci ripromettiamo di porre rinnovate basi per rapporti di cooperazione, scambio culturale e fratellanza.
A titolo di omaggio collaterale permetteteci di farvi dono dell’ex ministro Di Maio, dotato di pollice opponibile, già addestrato, che, potrebbe essere in grado di mescere le bevande al ministro Lavrov, stupendo i commensali.
Se a questo punto potessimo accedere alle condizioni contrattuali per le forniture di gas riservate ad un paese neutrale come l’India vi saremmo eternamente grati.
(Per un piccolo sconto vi mandiamo anche Calenda.)”
Et voilà, così, semplice semplice, potremmo risolvere la crisi energetica e ripulire un po’ della peggiore classe dirigente della storia repubblicana. (Augurandoci che le elezioni facciano il resto.)
Andrea Zhok
Sotto il titolo “Omaggio a Pavarotti” Rai5 ha diffuso un’esecuzione del 1970 della Messa da Requiem di Verdi. Nonostante la dedica, personalmente giudico che l’omaggio fosse ad altri. In primo luogo a Claudio Abbado, dalla cui direzione ho ascoltato molte volte questa composizione. Era uno dei suoi cavalli di battaglia, specie con l’orchestra della Scala. Non credo di poter dire niente su queste esecuzioni che non sia già stato detto mille volte.
Anche gli altri giudizi che ho da esprimere non sono originali. Ad ogni modo, è veramente impossibile non dare la palma del migliore al compianto Nicolai Ghiaurov. Subito dopo, la mia prediletta, Marilyn Horne. Che coppia, che voci, che sensibilità musicale. Pavarotti e Renata Scotto si collocavano un po’ più in basso. Mentre onorevoli erano l’orchestra e il coro dell’opera di Roma, certo per merito principale di Abbado.
Sono un po’ insoddisfatto di me, perché mi rendo conto di avere fatto una mera graduatoria, senza entrare nel merito delle interpretazioni. Però non ho voglia di calpestare il seminato.
Mi resta da esprimere la mia tristezza constatando che del centinaio di esecutori che riempivano la chiesa di Santa Maria sopra Minerva la grandissima parte non è più fra noi. Fanno luminosa eccezione le due cantanti soliste, coetanee, che a 88 anni suonati tengono duro. Rallegriamocene con loro.
(L’esecuzione è ascoltabile su RaiPlay)
Andrea Zhok sta in questi giorni pubblicando il programma del suo movimento, che concorre alle elezioni del 25 settembre insieme ad altre forze raggruppate nella lista Italia Sovrana e Popolare. Non voglio entrare nel problema pratico della conciliazione delle diverse anime presenti nella lista. Non voglio neanche dare un’adesione integrale al programma di Zhok. Concordo però con la parte che qui pubblico.
PILLOLE PROGRAMMATICHE
5 – REALISMO GEOPOLITICO, MULTIPOLARISMO E LA PROSPETTIVA DELLA NEUTRALITÀ
di Andrea Zhok
In collisione frontale con questa prospettiva stanno due modelli: il modello imperialista e quello globalista. Entrambi questi modelli assumono che un’unica forma di vita debba imporsi su tutte le altre. Nel caso dell’imperialismo si tratta di una singola civiltà che si intende imporre agli altri, nel caso del globalismo si tratta di un unico modello economico da imporre universalmente.
Abbiamo già avuto modo di sottolineare il nesso interno cruciale tra la richiesta di ripristino della sovranità popolare e le condizioni di agibilità della democrazia. L’idea di sovranità popolare è gemellata sul piano dei rapporti internazionali con l’idea di “autodeterminazione dei popoli”: di principio ciascun popolo ha diritto al perseguimento delle proprie linee di sviluppo, conformi al proprio tracciato storico-culturale e alla propria collocazione territoriale.
Nonostante il globalismo si sia diffuso sulla scorta di un’agenda liberale, che alcuni ingenuamente contrappongono alla tensione imperialista, la spinta alla globalizzazione è sempre stata una spinta autoritaria, sostenuta spesso dalla “moral suasion” militare. Le istanze globaliste si confondono nel passato con quelle imperialiste senza soluzione di continuità. È dal fuoco delle cannoniere inglesi sui porti cinesi a metà ‘800 (guerra dell’oppio), passando per i cambi di regime sudamericani fino ad oggi che l’occidente liberalcapitalista (a guida anglosassone) ha promossa l’apertura forzosa dei mercati altrui. La secolare fiaba del “mutuo beneficio del libero commercio” è servita all’occidente per intestarsi, una volta di più, il monopolio del bene e del giusto, giustificando ogni prevaricazione e ogni violenza (“apriamo i mercati altrui in punta di baionetta, ma anche se non lo sanno, è per il loro bene”). Imperialismo e globalismo sono movimenti congeneri, differenziati semplicemente da una retorica differente: l’IMPERIALISMO si propone di norma nella veste paternalistica di chi porta la vera civilizzazione a chi ne è privo, mentre il GLOBALISMO si presenta come diffusione attraverso il ‘dolce commercio’ di un modello di vita intrinsecamente superiore.
Nel mondo contemporaneo imperialismo e globalismo gravitano intorno al medesimo centro politico, che è lo stato nazione americano, l’unico che riserva a sé il diritto all’autodeterminazione (e infatti gli USA non ratificano sistematicamente trattati che li renderebbero oggetti di ingerenza o controllo – ad esempio alla Corte Penale Internazionale).
Adottare il principio dell’autodeterminazione significa adottare una visione geopolitica che sostiene una prospettiva MULTIPOLARE nei rapporti internazionali, dove si assume che, in presenza di asimmetrie di potere tra diverse nazioni, sia comunque auspicabile l’esistenza di una pluralità di poli di attrazione (“potenze”). L’esistenza di una pluralità di poli approssimativamente equipotenti rende meno ricattabili le potenze minori, gli stati più deboli, giacché questi possono oscillare tra diverse sfere d’influenza, avvicinarsi ad una sfera d’influenza differente, se la precedente sfera si dimostra troppo oppressiva, oppure cercare una posizione di neutralità tra esse. Il multipolarismo è la “democrazia” possibile in un campo dove essa è formalmente impossibile, cioè nei rapporti tra nazioni.
Essere province di un impero, o peggio ancora esserne protettorati di fatto, come avviene per l’Italia, ha il solo vantaggio di ridurre le responsabilità del ceto politico (che può perciò permettersi di avere un Di Maio come ministro degli esteri – tanto potrebbe starci anche un armadillo). Tuttavia questo posizionamento rende pedine perfettamente e integralmente sacrificabili, ogni qual volta ciò risulti utile al centro imperiale.
La posizione dell’Italia è oggi delicatissima e pericolosissima. In quanto paese strategicamente collocato tra l’occidente e l’oriente politico, tra Europa atlantica e medio oriente, tra nord e sud del mondo, noi siamo i più esposti ad entrambe le minacce incombenti in questa fase storica: il pericolo di un conflitto bellica e la pressione migratoria.
Quanto alla prima, la situazione per l’Italia potrebbe degenerare da un momento all’altro. Il conflitto russo-ucraino, irresponsabilmente fomentato dagli USA e dalla Nato può degradare in un istante in coinvolgimento diretto. Essendo l’Italia la portaerei americana nel Mediterraneo, qualunque escalation che coinvolgesse in maniera esplicita la Nato ci vedrebbe essere, nostro malgrado, la linea del fronte.
Al tempo stesso l’Italia è sulla linea del fronte anche rispetto al problema esplosivo dei processi migratori. Tassi di migrazione elevati e incontrollati operano sistematicamente come creatori di squilibrio sociale, mettendo a dura prova le strutture di welfare dei paesi ospitanti, fornendo possibile alimento alla criminalità, e creando uno strato di manodopera ricattabile e disposta a tutto, con effetto deleteri di compressione salariale. Perciò immigrazioni massicce su tempi brevi – superiori alla capacità di integrazione e metabolizzazione degli stati d’arrivo – risultano dannose sia economicamente che culturalmente per i sistemi sociali che le subiscono, creando condizioni in cui lo sfruttamento, la precarietà e il ricatto crescono verticalmente.
Su entrambi questi temi la politica (e l’informazione) italiana opera e si esprime ben al di sotto del livello minimo di serietà. I temi vengono trattati sistematicamente come se fossero innanzitutto questioni morali, che chiamano in causa giudizi sentimentali: la lealtà (atlantica) o la brutalità (russa), la generosità dell’accoglienza o l’odio xenofobo, la benevolenza dei buoni o l’ostilità dei malvagi.
Ogni tentativo di rimettere al centro, come necessario in una discussione dove viga il realismo geopolitico, il tema degli interessi nazionali viene liquidato come egoismo, grettezza, nazionalismo.
Questa esistenza virtuale in un mondo fiabesco e moraleggiante, estraneo alla realtà dei rapporti di potere e del confronto tra interessi indipendenti, non è mera bambinaggine innocente, ma è un’operazione di distrazione di massa, che contribuisce a rendere il nostro paese impotente sul piano internazionale: una vittima predestinata.
Ma sia per la sua collocazione geografica che per la sua storia l’Italia potrebbe aspirare naturalmente ad un ruolo di NEUTRALITÀ. L’Italia è la sede del Vaticano, è una delle aree di maggior interesse storico e artistico mondiale e ha quella posizione geopoliticamente mediana che ne fa un candidato d’elezione per un ruolo di non allineamento ed equidistanza in un mondo multipolare.
È chiaro che nel contesto maturato nel tempo il realismo politico esige anche di riconoscere che l’Italia non ha nelle sue disponibilità un’uscita di strappo dalle attuali dipendenze internazionali. Ciò che deve avvenire è l’avvio di un processo di autonomizzazione, che invece è perfettamente nelle possibilità immediate del paese. In questa fase storica, il primo passo indispensabile sarebbe la promozione di trattative di pace tra Russia e Ucraina e l’uscita immediata da ogni coinvolgimento nel conflitto in essere.
Lo so che non succederà, ma credo sinceramente che il sig.Letta dovrebbe prendermi come consulente elettorale. Non è che io abbia grande esperienza di collegi e di voti di scambio, ma sono in possesso di robusto buon senso, merce che sembra rara dalle parti del PD. Prendiamo i casi di Monica Cirinnà e Pierferdy Casini. La prima dice di essere stata candidata in “territori per cui io non sono adatta”. Se lo dice lei, deve essere vero, se no non avvierebbe la campagna elettorale con una manifestazione di disprezzo per i suoi potenziali elettori. Il secondo viene imposto ai disciplinati elettori bolognesi del PCI con la surreale intimazione “votate Pierfurby, se no vincono le destre”.
Ecco: se io fossi il consulente del nipote meno dotato di Gianni Letta, gli consiglierei una semplice inversione: Casini nel collegio assegnato alla Cirinnà, che non so quale sia, ma se è inadatto a Monica è sicuramente adatto a Pierfurby. A Bologna, invece, manderei un esponente della famiglia Cirinnà: il cane, più versato alle campagne elettorali in quanto esperto di fundraising.
Per quel che conta, a titolo strettamente personale, avverto un’estrema difficoltà in questo momento a frequentare i media o social media senza sofferenza.
La mia percezione – ovviamente fallibile, mi auguro erronea – è che siamo in una di quelle fasi storiche che precedono una catastrofe.
Queste fasi storiche – la più studiata è la fase immediatamente precedente alla Prima Guerra Mondiale – sono caratterizzate (lo vediamo bene a posteriori) da una sorta di accecamento collettivo, un’incapacità di uscire dai vecchi schemi, da stantii riflessi condizionati, mentre la storia ci sta portando su scogli che abbiamo visti affiorare da tempo.
La percezione è quella di uno scollamento totale, irredimibile, tra le coscienze di chi verrà chiamato a giocare le prossime partite (elettorato e classi dirigenti) e la durezza di una realtà che ci ha già detto in faccia a muso duro che stiamo per venire travolti.
Abbiamo costruito una società che, nel migliore dei casi, ci addestra alla furbizia, mai all’intelligenza, e finiamo per credere che basti sempre una mossetta capace di sbilanciare chi ci sta di fronte per passargli davanti in fila, e questo basta a pensare di aver avuto successo.
Questo paese e la sua classe dirigente vanno semplicemente ricostruiti da capo.
E per le ricostruzioni ci sono due percorsi: o si usano le strutture esistenti per rimpiazzarle pezzo a pezzo (riformismo illuminato, palingenesi politica), oppure si attende la catastrofe sperando che essa lasci in piedi almeno i materiali da costruzione per un mondo nuovo.
Tentare la prima strada è un dovere, senza alternative, perché le catastrofi solo talvolta consentono di ricostruire, più spesso spengono intere civiltà e travolgono interi popoli.
Ma più mi guardo in giro, più ho l’impressione che la gravità della situazione, la pericolosità della strada su cui ci muoviamo non sia affatto percepita. E solo quella percezione consentirebbe di mobilitare una serietà d’intenti all’altezza della situazione.
Così, non riesco a togliermi dai pensieri fissi e ricorrenti la chiusa del Dialogo tra la Natura e un Islandese:
“Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.”
“Il problema, semmai, è la capacità da parte della destra meloniana di essere un argine agli estremismi, di essere un muro contro gli antieuropeisti, di essere un muro contro i complottisti. Il problema di Meloni è questo.“
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