Archive for dicembre, 2017

27 dicembre 2017

Cercare il pelo in un uovo di trent’anni fa

Alex Ross è un critico musicale americano molto orientato alla musica contemporanea. E’ l’autore di un saggio fondamentale in questo campo, “The rest is noise”, che caldamente consiglio, anche nella sua versione  italiana (Il resto è rumore, Bompiani). Scrive sul New Yorker, il che già lo classifica come parte dell’intellighenzia americana. Ultimamente, come è doveroso, è ossessionato da Donald Trump, the Horror-Clown.

Ha un blog nel quale, se legge un libro, ne lascia pezzettini: come fanno in tanti, me compreso. Ma i pezzettini soddisfano spesso la sua ossessione. Perlustrando il libro “Vanity Fair Diaries” di Tina Brown, ha trovato un passo che mette insieme la musica  e Trump. Nel 1987 (pensa un po’) Tina Brown testimonia che Donald, a cena, avendo presenziato alla prima (opening) di un’opera dell’Anello del Nibelungo al Met, ne lamentava la lunghezza di cinque ore. Già questo sarebbe da buzzurro, ma il buon Alex si è preso la briga di andare a consultare il calendario del Met del settembre di 30 anni fa, per scoprire che l’opera di apertura della stagione era un Otello, non un’opera di Wagner, peraltro in cartellone nello stesso mese. Di qui il sospetto, insufflato nei lettori, che Trump non distingua Verdi da Wagner. Con tutto il rispetto, ritengo si tratti di sospetto fallace, perché l’Otello non dura cinque ore. Alex gioca sporco sull’equivoco del termine “opening” che vorrebbe dire apertura della stagione, e non semplice “prima”. Ma come fa a essere così sicuro che l’errore non sia di Tina Brown, che scriveva veloci annotazioni diaristiche? E, soprattutto, chi se ne frega se Trump trent’anni fa, a cena, incorreva in una veniale imprecisione, nella quale tutti noi cadiamo (“sono stato alla prima alla Scala”: potrebbe essere S.Ambrogio, ma anche la prima di una qualsiasi opera in cartellone)?

Ma, sopra il soprattutto, la vogliamo piantare con questa ridicola ricerca di peli nell’uovo?

P.S.: chissà chi pagò la cena. Sospetto per sospetto, io un sospetto ce l’ho.

22 dicembre 2017

Ah, le librerie!

pesce

In sostanza: la casa editrice E/O ha litigato con Amazon a proposito di percentuali.

Capita in tutto il mondo, e da sempre. Fra i costi di produzione e il prezzo di vendita c’è il margine: il produttore e gli intermediari commerciali, ossia la distribuzione, se lo contendono. Nel mercato del libro, gli editori erano abituati a essere i pesci grossi, avendo a che fare con i librai, pesci piccoli. Tanto è vero che gli editori avevano cominciato a integrarsi a valle, come si suol dire, facendo fiorire megalibrerie con  tanto di bar e ristorante, e i piccoli librai avevano cominciato a soffrire, senza che gli editori si commuovessero troppo.

Poi è arrivato un pesce più grosso ancora, Amazon. Pianto e stridor di denti:

Ci è stato richiesto uno sconto (quello che gli editori pagano ai distributori e alle librerie come loro “quota” del ricavo finale) a loro favore troppo gravoso per noi”.

Sintassi faticosa, ma concetto chiaro: ci volete togliere quattrini. E perché meno soldi alle Edizioni E/O sono IL MALE? Non si tratta di avidità, perbacco: si tratta di difendere -indovinate?-  la libertà di espressione e altre nobili cose:

“È evidente che il pericolo per la libertà di espressione è reale, costante e quotidiano. Inoltre le case editrici hanno bisogno di margini economici sufficienti per investire nella ricerca di nuovi autori e di nuove proposte. Se questi margini vengono troppo erosi, le case editrici rischiano di sparire (assieme alle librerie, agli autori e a tutto il mondo del libro).”

Mentre noi ci domandiamo quale interesse abbia Amazon a far sparire “tutto il mondo del libro”, le Edizioni E/O non mancano di strimpellare un ritornello che diremmo classicissimo: la preoccupazione per la scomparsa delle librerie, luoghi di cultura.

La chiusura delle librerie causata dalla concorrenza spietata di Amazon significa anche impoverimento economico e culturale del territorio: vengono a mancare essenziali luoghi di ritrovo e di cultura.

Come dicevo in un vecchio post che farei fatica a ritrovare, questa delle librerie luoghi di ritrovo e di cultura, ricchezza del territorio, mi pare un luogo comune non supportato dai fatti. Il libraio uomo colto, il libraio consigliere, la libreria luogo di ritrovo, ricchezza del territorio: roba sconosciuta all’uomo della strada, perlomeno ai nati nel dopoguerra. Personalmente, mai mi feci consigliare da un libraio, né conosco nessuno che l’abbia fatto. E, onestamente, non conosco un libraio capace di dare consigli. Ho sentito parlare di qualche commesso esperto di settore, in qualche libreria milanese, rigorosamente appartenente a case editrici (Hoepli, Rizzoli). Tutto qua.

Ho l’impressione che queste battaglie di retroguardia siano perse in partenza. Non occorre essere esperti di strategia e di robotica per capire che il mondo cambia, e cambierà sempre più in fretta. I librai spariranno, come spariranno tante altre attività produttive e tanti mestieri superati dalla tecnologia e dalla storia. Personalmente, compro e-book, e li compro su Amazon. Ma se dovessero costare un centesimo di meno, li comprerei da un altro.

 

12 dicembre 2017

Il vero splendore

dav

Premetto che non so nulla della signora Mazzantini. Questo nulla spazia dalla letteratura alla vita privata, passando per la politica e i dati patrimoniali. Nulla. Ciononostante, ritengo lecito domandarmi quale sia il significato del motto che campeggia sulla porta di servizio della libreria Feltrinelli alla Stazione Centrale di Milano, e che qui ricopio: “Il vero splendore è la nostra singola, sofferta, diversità”.
Trattandosi di scrittrice, mi permetterei anzi di fare il difensore d’ufficio della lingua italiana, e di sollevare obiezioni sulla seconda virgola. Ma questo ci svierebbe dalla questione di sostanza, che è, manifestamente: perché l’uso della nostra lingua deve per forza essere vago, impreciso, allusivo, privo di chiarezza, come l’effetto flou preteso da certe vecchiarde televisive?

Analizziamo la frase (che, non dimentichiamolo, è stata scelta come il passaggio più significativo per presentare la scrittrice, si suppone su proposta della stessa, o almeno con il suo assenso).
Innanzitutto, che significa? Qual è il messaggio? A prima vista, sembrerebbe questo: la diversità è una cosa splendida. Ma, oltre a non significare niente, è anche pochissimo originale, visto che tutti, tutti i giorni, tessono le lodi della “diversità”. No, è impossibile che il messaggio di punta, quello che deve presentare la scrittrice e suscitare irresistibili desideri di acquisto, sia così banale e risaputo. Il segreto deve per forza stare nei dettagli. C’è, per esempio, un interessante “splendore”, preceduto dall’aggettivo “vero”. Si deve notare che, se premettiamo l’aggettivo “vero”, stiamo classificando come non autentici gli altri splendori. Si suppone che la Margaret non voglia negare che il sole splende. Margaret si riferisce a doti/atteggiamenti/posizioni etico/cultural/politiche/religiose/sessuali/eccetera delle persone. E stabilisce che solo la “diversità” si può classificare come splendida, mentre tutte le altre qualità, se definite splendide, lo sono abusivamente. A questo punto, occorre conoscere meglio il concetto di diversità, e la Margaret non si tira indietro, perché ci provvede di altri due aggettivi, che sono singola e sofferta. Mica poco. Vuol dire che se siete diversi, ma lo siete in gruppo, non siete veramente splendidi. Oppure, siete diversi per conto vostro, ma la cosa vi è venuta spontanea, liscia liscia, senza sofferenza ma anzi con dandismo, e allora non siete veramente splendidi.
E va bene. Ma, si licet, diversi da cosa? Non credo che la Margaret parli del solito diverso gay, o di pelle non bianca, o magari comunista. Ciò irrigidirebbe la meravigliosa fluidità del ragionamento sotteso all’aforisma: la forza dello slogan sta nella sua apertura, nel fatto che ciascuno possa riconoscere se stesso in questo diverso singolo e sofferente. Persino se bianco, eterosessuale e -absit iniuria- di destra.
Messo così, e al di là della sua dubbia utilità, il messaggio è abbastanza chiaro. C’è anche da compiacersi che sia passato un po’ di moda il vecchio insulto “individualista piccolo borghese”, che fino a qualche anno fa sarebbe arrivato sicuramente sui denti. Altro che vero splendore.